Sostenibilità sociale, ecco i parametri per le aziende

S-Assessment di ReWorld, startup creata da Eugenia Romanelli, è il primo strumento ad hoc in Italia per le imprese e si basa su un questionario studiato in collaborazione con La Sapienza

Mercoledì 20 Marzo 2024 di Raffaele D'Ettorre
Sostenibilità sociale, ecco i parametri per le aziende

Se si parla di sostenibilità, il focus solitamente riguarda modelli di sviluppo economici dal basso impatto ambientale, in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.

Ma c’è un terzo pilastro della sostenibilità, oltre a quello economico ed ambientale, che in qualche modo sorregge gli altri due e di cui si parla ancora troppo poco: quello della sostenibilità sociale, cioè l’identificazione e la gestione degli impatti che la corporate culture, cioè il modello lavorativo aziendale, ha sulle persone.

Il tema è complesso, principalmente perché finora gli aspetti sociali della sostenibilità – a differenza di quelli ambientali ed economici, immediatamente quantificabili – risultavano difficili da rendere in cifre. Ma adesso esiste un metodo per valutare scientificamente anche quel parametro. 


LA METODOLOGIA 

Si tratta dell’S-Assessment di ReWorld (startup fondata dalla scrittrice e giornalista Eugenia Romanelli), primo strumento in Italia a proporre una metodologia per misurare la sostenibilità sociale delle imprese, che sempre più esperti oggi considerano fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi impostati dall’Agenda ONU 2030. Il questionario (realizzato dal Dipartimento di Ingegneria informatica, ambientale e gestionale della Sapienza Università di Roma, grazie a un progetto di ricerca finanziato da ReWorld insieme a Eikon Strategic Consulting, società italiana leader nella misurazione dei media e delle percezioni sociali) individua cinque obiettivi essenziali per la sostenibilità sociale all’interno delle aziende: salute e benessere, parità di genere, lavoro dignitoso e crescita economica, riduzione delle diseguaglianze, consumo e produzione responsabili. Rispondendo alle domande, le aziende vengono posizionate su un indice algoritmico che evidenzia anche le maggiori criticità che andranno poi affrontate per rendere l’azienda socialmente più sostenibile, in un processo di valutazione che dura un anno. 
Tra i nomi importanti che hanno già aderito a S-Assessment ci sono Tim e Rai. «Nel sistema Paese c’è ancora poca chiarezza su cosa sia la sostenibilità sociale e si tende a confonderla con quella ambientale – spiega Romanelli - per due motivi: gli studi sull’ambiente hanno diversi decenni di vantaggio, e poi non sono arrivati parametri numerici dall’Europa. Con questo indice vogliamo muovere un primo passo per rendere misurabile anche questa sostenibilità, oggi fondamentale per cambiare le logiche di convivenza e recuperare ai danni e agli errori fatti finora». Il tema della sostenibilità sociale ha iniziato a penetrare nel discorso pubblico a cavallo della pandemia, quando sono stati messi in evidenza alcuni dei limiti dell’attuale modello lavorativo basato sulla corporate culture. 


LA PRODUTTIVITÀ

Con lo smart working, lo stesso lavoro in presenza è stato messo in discussione e si è iniziato a ragionare su modalità ibride che trasferissero sul digitale le interazioni lavorative. Da lì poi è partito il dibattito sul confine tra vita privata e lavorativa: mentre grazie alla tecnologia i controlli sul lavoro a casa si facevano sempre più serrati, sempre in quel periodo sono aumentati gli episodi di burnout dei dipendenti, fino a diventare una vera emergenza sociale. La concezione stessa di produttività è passata da un modello incentrato sul tempo a uno incentrato sugli obiettivi, portando sempre più persone a rimettere in discussione il concetto stesso di lavoro aziendale.


IL RAPPORTO 

La prima conseguenza di questa crisi strutturale (che per molti versi è anche ideologica) è stata la “Great Resignation” (la grande ondata di dimissioni) del 2021, che nei soli Stati Uniti ha portato a oltre 4 milioni di dimissioni volontarie, il 2,8% della forza lavoro totale, il numero più alto dal 2000. Uno degli aspetti che più hanno colpito di quell’ondata è il fatto che il 40% di chi ha lasciato volontariamente il lavoro l’ha fatto senza prima trovare un nuovo impiego. Segno di un nuovo corso che è stato recepito anche qui in Italia, come sottolinea il report di ManpowerGroup “The Great Realization”, dal quale emerge come il 51% dei lavoratori italiani non valutino più un impiego soltanto in base alla retribuzione ma siano sempre più orientati a ricercare la flessibilità nei modelli e negli orari lavorativi, a favore di un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata.

Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 07:37 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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