Guanti di plastica, doppia mascherina, l’igienizzante da spruzzare comunque sulle mani nervosamente più volte e c’è addirittura chi si porta la sedia da casa avvolta in una busta celeste per avere meno contatti possibili con il resto del mondo che viaggia sulle linee A e B della metropolitana.
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La regola resta una frase sul sito dell’Atac, un ammasso di parole che fanno rabbia se si è costretti a prendere la metro per andare al lavoro, dal medico o da un parente malato. Arco di Travertino, linea A: nessuno controlla ai tornelli quante persone entrano, neanche se sono le 8, neanche durante l’orario di punta. Gli addetti dell’Atac sono scomparsi: non c’è chi vigila nella stazione di Furio Camillo e neanche sulla banchina della fermata di San Giovanni. Sulle linee A e B vige solo la regola dell’autogestione per difendersi dal Covid, soli e abbandonati scatta il campanello d’allarme interiore quando è chiaro che nel vagone entrano troppi viaggiatori, la distanza salva-vita di un metro è sogno, un dovere non assicurato dall’Atac in nessun modo, ma si deve comunque andare a lavoro. E allora si pensa alla mamma anziana cardiopatica, allo zio ottantenne che si dovrà evitare di andare a trovare «perché - dice il nipote - io prendo la metro». Arrivare a Termini significa aver impattato già con una ventina di persone, tutte per fortuna portano le mascherine, ma i nasi a volte continuano a sbucare dalle protezioni. Una ragazza, all’altezza della fermata Re di Roma sbotta contro uno straniero: «Alza la mascherina! Alzala!». Lui esegue solo perché gli sguardi degli altri viaggiatori sono un macigno. «Ma dove sono i controlli?» grida Giada, che deve raggiungere Barberini. Giorni fa a Vittorio Emanuele è entrata una signora: si è portata la sedia da casa. A Termini, un treno che passa dopo oltre 3 minuti trasforma la banchina in un’arena di scontro: ci sono due vigilanti, è vero, ma non impediscono gli assembramenti. «Che ci stanno a fare?». Qualcuno indietreggia, prova a rifugiarsi sotto gli archi, ma anche lì è ressa. Qualche minuto dopo le 8 arriva il treno: spintoni, veloci slalom che impongono maldestri colpi di stretching alle spalle, smorfie e c’è chi sbotta: «Che vergogna! Alla faccia del 50% della capienza...». A Barberini quasi si inciampa su una transenna che dovrebbe separare i flussi: è caduta chissà da quanto e non è stata mai rialzata dagli addetti Atac. A Flaminio ci sono le scalette che si affollano. Rita D. C., è una delle vittime dell’assenza di controlli da parte di Atac e denuncia i suoi viaggi da incubo tra Lucio Sestio a Repubblica per andare al lavoro: «Le promesse piovono ogni giorno dall’alto, ma i vagoni continuano a essere strapieni, il limite del 50% di capienza non esiste: ho viaggiato a 20 centimetri dagli altri». Anche ieri, nel pomeriggio, al rientro dal lavoro, nella stazione ferroviaria di Flaminio della Roma-Viterbo ci sono stati assembramenti, ressa. Romani e non, continuano a indossare le mascherine, spesso anche i guanti, mentre le regole restano solo sulla carta. La fallace autogestione in nome della sopravvivenza, che rassicura solo un po’, intanto continua. Non c’è scelta, dopotutto.