Pd, terremoto nel partito: Renzi sotto accusa. Cresce il timore per l'esito del referendum

Lunedì 20 Giugno 2016 di Nino Bertoloni Meli
Pd, terremoto nel partito: Renzi sotto accusa. Cresce il timore per l'esito del referendum
Un crollo. In voti e in percentuali. Con cadute impreviste, come quella di Piero Fassino. Dal primo al secondo turno, anziché recuperare, il Pd è ulteriormente indietreggiato. Il dato generale parlava di un Pd al 30,9 per cento, pari al 18,8 come dato di partito più il 12,1 di liste collegate. Un Pd sempre primo partito, ma con 12 punti in meno rispetto alle Europee. Rispetto alle precedenti comunali, poi, circa 100 mila erano stati i voti persi nel tragitto (1 milione e 658 mila 991 rispetto a 1 milione e 560 mila 058). Il calo c'è anche nella cosiddetta zona rossa, dove al primo turno il Pd con gli alleati stava al 40,6 per cento, mentre alle Europee viaggiava sul 53,2 per cento.

La vera doccia fredda si chiama Fassino Piero. L'ultimo leader dei Ds aveva 50 mila voti di vantaggio al primo turno rispetto alla pentastellata, oltre che una buona reputazione per non avere male operato alla guida del capoluogo piemontese. Dunque? Dal centro, sia pure a mezza bocca, fanno trapelare che comunque Fassino alla fine non poteva rappresentare e non ha rappresentato il nuovo; ma da parte fassiniana si farà sicuramente presente che la sua caduta è da ascrivere più, se non in toto, a una certa campagna renziana fatta dal centro, che non a questioni locali.

 

È risaputo che dentro il Pd o a latere del Pd, esponenti come Giorgio Napolitano, Piero Fassino e, pare, Dario Franceschini, non siano molto d'accordo con la campagna a base di Renzi contro tutti impostata dal leader, campagna che non sta pagando e non è destinata apagare. Così anzi si favorisce l'unione sacra contro il Pd e si perde il referendum. Ma al momento il problema sono i rapporti e i risvolti interni al Pd sotto emorragia di voti e di prospettive: Fassino e Franceschini sono due assi portanti della maggioranza renziana, e non è da escludere che quelli che finora sono stati mugugni e piccoli distinguo, possano ben presto trasformarsi in aperto conflitto dentro la maggioranza del Pd.

Dubbi sono stati espressi anche all'indirizzo di Bobo Giachetti, nel senso che anche lui, alla fine, non si è proprio dimostrato il nuovo che avanza, che è un po' la cifra di questa tornata. Giachetti non aveva un vantaggio da gestire, ma doveva recuperare, forte di un plafond di voti disponibili intorno ai 400 mila. Il bottino finale è, più che magro, inesistente.

GIOVANI TURCHI
Chi sta messo male, dentro la maggioranza del Pd, sono i giovani turchi. Il crollo capitolino porta le impronte, le stimmate, le tracce di Matteo Orfini, il commissario nonché presidente del partito, che ha intrapreso una coraggiosa operazione di repulisti, ha chiuso decine di circoli infetti, ma il risultato finale è stato una débacle elettorale. E nei partiti, o nei simulacri di partito, di oggi, è il risultato elettorale che alla fine determina tutto il resto. Non sta messo meglio il leader della corrente, Andrea Orlando, ex commissario a Napoli, al quale viene intestata la candidatura di Valeria Valente già naufragata al primo turno, e il successivo tentativo di impostare un ponte verso Antonio Bassolino.

E la minoranza dem? «Aspettiamo quel che ha da dire il segretario, la prima mossa spetta a lui», il leit motiv dei capi della corrente, che hanno fin dall'inizio detto e dimostrato di buttarsi a capofitto («ventre a terra», era il motto) nella campagna, con Massimo D'Alema che ci ha tenuto a far sapere di aver votato «secondo le indicazioni di partito, come sempre». Secondo una vecchia logica da caminetto, a questo punto sarebbe stato naturale che il segretario arrivasse in direzione e proponesse Roberto Speranza vice segretario, come segnale di apertura e di gestione unitaria nel momento del bisogno. Ma secondo una vecchia logica, appunto, cosa che Renzi finora non ha mai seguito. Anzi. Probabilmente è destinato a venire meno anche l'andazzo di disinteressarsi del partito concreto, della periferia, lasciata finora in mano a potentati o personaggi locali specie al Sud (Crocetta in Sicilia, De Luca in Campania, Emiliano in Puglia).

Renzi mette mano al partito? Finora non lo si è visto in questa veste, e difficilmente, date le premesse, lo si vedrà. Si parla di rifare di sana pianta la segreteria: omogenea, cioè solo di maggioranza, se prevarrà lo scontro interno; unitaria, cioè anche con le minoranze, se prevarrà la tregua armata. Le premesse sono per la prima soluzione. Si tratta comunque di un organismo che al massimo avrà pochi mesi di vita, visto che dopo il referendum si andrà di filato al congresso anticipato nel 2017.

In buona posizione per incarichi e comunque per una maggiore visibilità appare Maurizio Martina, attuale ministro dell'Agricoltura, milanese, ex bersaniano da tempo con Renzi, che potrebbe vedersi riconosciuto un buon lavoro svolto a Milano passando per l'Expo.

 
Ultimo aggiornamento: 08:02