Charlie Hebdo, rap e kalashnikov: la vita dei fratelli spietati

Venerdì 9 Gennaio 2015 di Nino Cirillo
Charlie Hebdo, rap e kalashnikov: la vita dei fratelli spietati
dal nostro inviato PARIGI Il capo sembra proprio lui, Cherif. È lui che concede interviste, è lui che si fa arrestare per tornare in libertà un anno e mezzo dopo - e poi dicono della giustizia italiana -, è sempre lui che trascina a un certo punto Said, il fratello più grande di due anni, ad ascoltare le prediche dell'imam Farid Bruneyttou, in una moschea del Diciannovesimo, dove Parigi sta per scomparire e inizia l'infinita banlieue.



Per inquadrarli bene tutti e due, questi franco algerini per ora sfuggiti alla caccia di 88mila agenti della polizia francese, bisognerebbe andare a vedere dove sono nati e dove sono cresciuti. A Gennevilliers, un posto che i parigini della Bastille neanche conoscono, di cui hanno saputo solo l'altra sera in tv dopo l'attentato, un paesone scombinato della regione Hauts de Seine, una schiera di giganteschi condomini, un impasto di degrado e disagio sociale che Tor Sapienza al confronto fa solo sorridere. Ebbene da lì si sono mossi, un solo biglietto di metro per arrivare al Louvre, eppure una distanza siderale da quella civiltà che li aveva accolti. Immigrati ormai di terza generazione, i più frustrati, potenzialmente i più pericolosi secondo tutti i testi di criminologia, con biografie che terribilmente assomigliano ad altre. Perché anche Cherif, per dirne una, nei suoi anni giovanili elogiava il potere salvifico del rap, proprio come il boia inglese di Foley prima di arrivare in Iraq.



L'ARRESTO PER TERRORISMO

Se non sono loro i macellai di rue Nicolas Appert, certamente non stanno facendo nulla per smentirlo. Hanno ignorato anche l'appello del loro avvocato a costituirsi, sono due fantasmi forse già finiti nella rete. Eppure non si arrendono, eppure stanno vendendo carissima la pelle, dando l'idea di essersi a lungo preparati a questi momenti. Cherif Kouachi, sempre lui, a un certo punto della sua giovane vita l'ha proprio dichiarato: «È scritto nei sacri testi: è bene morire da martire». Lo disse in un'intervista a France3 nel 2005, nove anni fa, ieri ripescata e rimandata in onda. In quella stessa intervista spiegava la sua ammirazione per quell'imam e raccontava dei suoi viaggi, in Siria e in Iraq. Ma neppure questo è bastato a fermarlo. Ce lo ritroviamo tre anni dopo arrestato per davvero, coinvolto in un'indagine sul reclutamento di terroristi per l'Iraq. Tre anni di carcere gli vengono inflitti, ma la pena alla fine sarà dimezzata perché non ha precedenti. Esce di galera e ricomincia a viaggiare, e stavolta al suo fianco c'è sicuramente Said. Almeno uno di loro va nello Yemen, pare, e poi entrambi di nuovo in Siria. Due campioni dei foreign fighter, due esemplari classici di terroristi “homegrown”, nel senso che ce li siamo cresciuti in casa e poi esportati, e poi fatti tornare. Al loro ritorno in Francia sono diventati terroristi addestratissimi, due boia impeccabili, come hanno dimostrato l'altra mattina a Parigi quando hanno compiuto - secondo gli inquirenti francesi - la strage alla redazione di Charlie Hebdo. L'errore nel chiedere l'indirizzo, certo, e anche la scarpa finita sotto la Citroen e poi ripresa, ma per il resto un concentrato di velocità, di precisione e di ferocia, fino a eliminare senza pietà dodici persone, fra i quali due algerini come loro.



MOLOTOV NELL'AUTO

Incappucciati si sono presentati a Charlie Hebdo e incappucciati sono rimasti, almeno a dar credito alle diverse testimonianze raccolte. E anche apparentemente imprudenti, forse solo così sicuri da voler lasciare ad ogni costo delle tracce. Le due rivendicazioni innanzittutto, quel proclamare «Allah è grande» e poi «Vendicheremo il Profeta», quel prendere di petto il povero automobilista di Porte de Pantin per gridargli in faccia: «Dillo a tutti che siamo Al Qaeda dello Yemen».



Ma non solo. Il benzinaio che giura di averli visti ieri mattina rapinare cibo e carburante nella sua stazione di servizio, sostiene anche di aver notato nell'auto un paio di bandiere jihadiste e una decina di bottiglie motolotov. E perfino un lanciarazzi. Armati fino ai denti, con una via di fuga probabilmente già studiata prima di passare all'azione. Le loro foto, ormai, sono su tutti i giornali del mondo, le hanno diffuse tutte le tv, eppure ancora non li prendono. Come avvolta nel mistero resta la figura del loro complice, probabilmente l'uomo che li aspettava in auto pronto alla fuga.

L'OMBRA DEL COMPLICE



Il ragazzino preso ieri dalla polizia ha facilmente potuto dimostrare che quella mattina lui era a scuola. E' stato un buco nell'acqua. C'è chi arriva a sostenere, ma si romanza parecchio, che il loro complice possa essere addirittura lo sparatore di Montrouge, l'uomo che ieri mattina ha ucciso una vigilessa dalla parte opposta della città. Ma niente per ora lo fa pensare. Eppoi questo vieni e vai, da una parte dall'altra di Parigi, perché è sempre quel benzinaio che sostiene di averli visti diretti a un certo punto verso Sud, come se avessero cambiato idea. La debbono aver cambiata di nuovo, se i reparti speciali stanno ancora tutti lì, 70 chilometri a Nord di Parigi, in Piccardia, fra paesini che si chiamano Crepy en Valois e Cochy, con i fucili puntati contro una fattoria. I due o tre appartamenti nel frattempo perquisiti lungo il tragitto si sono dimostrati covi freddi, i fratelli Kouachi evidentemente non li hanno usati. Ma di qualche complicità potrebbe essersi serviti, qualche base insospettabile potrebbero averla usata. A dimostrazione che non sono dei «piccoli delinquenti», come sta ancora scritto negli archivi della polizia francese.

Ultimo aggiornamento: 12:47