Riforme, Meloni e l'obiettivo premierato: la strategia della convergenza e la tentazione decisionista

La linea del capo del governo: «Io voglio fare una riforma ampiamente condivisa, ma la faccio. E la faccio perché ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato»

Martedì 9 Maggio 2023 di Mario Ajello
Riforme, Meloni e l'obiettivo premierato: la strategia della convergenza e la tentazione decisionista

Il primo effetto, tutto politico, nel discorso sulle riforme istituzionali Giorgia Meloni a colloqui ancora aperti con gli altri parti lo ha ottenuto. Ed è questo: sull’ipotesi del premierato può contare sulla collaborazione di Renzi e di Calenda, e sotto sotto di svariati esponenti del Pd non appretenenti alla maggioranza congressuale della segretaria Elly Schlein. La linea del capo del governo: «Io voglio fare una riforma ampiamente condivisa, ma la faccio. E la faccio perché ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato». E dunque, se non è il presidenzialismo - e sul presidenzialismo ormai si è capito che la strada è impraticabile - è il premierato l’obiettivo di Meloni. Il che significa elezione diretta del presidente del consiglio, maggiori poteri a Palazzo Chigi, più stabilità grazie alla facoltà - che finora non c’è - di nominare e revocare ministri da parte del premier. 
E comunque, dicono nell’entourage di Meloni, «siamo ancora ai preliminari.

Sul tavolo non c’è ancora nulla di definito». Il galateo istituzionale impone di dire che per ora c’è un solo obiettivo: «Ascoltare».

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I nodi

E magari non sarà solo per puro formalismo, se Meloni ci ha tenuto a dare agli incontri di queste ore, anche sul piano simbolico, una valenza precisa: «E’ un confronto tra maggioranza e opposizione che parte senza alcuna iniziativa o proposta governativa. L’esecutivo, quando si tratta di riforme istituzionali, fa un passo indietro». Però oltre alla grammatica istituzionale c’è pure il pragmatismo: quello a cui si rifanno dirigenti di FdI che sul tema si sono confrontati con la premier quando ammettono che sì, tra le molte possibili, una appare la via obbligata, o quantomeno la più praticabile: quella appunto del premierato. Che poi è una vecchia bandiera anche della sinistra riformista. Il presidenzialismo, vessillo storico della destra, era l’ipotesi più cara anche a quel Francesco Saverio Marini, professore, costituzionalista romano di grande esperienza, che Meloni ha voluto con sé come consigliere giuridico. E tuttavia questa preferenza condivisa nel mondo patriottico va progressivamente scolorando verso una sua variante, per dir così, più moderata. C’è anzitutto una questione di opportunità. Lavorare a una svolta presidenzialista significherebbe di fatto rischiare un incidente diplomatico con l’attuale Capo dello stato, che finirebbe malgré soi trascinato in un dibattito che mira a indebolire la sua attuale posizione istituzionale. Dire che solo un presidente della Repubblica eletto dal popolo garantisce stabilità, con l’attuale inquilino del Quirinale scelto per via parlamentare, parrebbe forse uno sgarbo, quantomeno.

La logica della politica è quella che suggerisce a Meloni di cercare una prospettiva di convergenza con le opposizioni e il punto d’incontro - al netto del Pd e dei 5 stelle - è stata trovata. L’aver convocato alla Camera e non a Palazzo Chigi le consultazioni di questa giornata (ultimo colloquio sarà con Elly Schlein alle 18,30) coi gruppi parlamentari per intavolare il confronto sulle riforme costituzionali, l’aver scelto la biblioteca del Presidente di Montecitorio e non lo studiolo del capo del governo, l’aver messo in agenda ciascuna delle componenti presenti in Parlamento: tutto sta lì a dimostrare una volontà di dialogo che prescinda, almeno formalmente, dalle volontà del governo. Che pure a questi incontri si sta presentando in gran completo – con la premier accompagnata dai sottosegretari Mantovano e Fazzolari, i ministri Ciriani e Casellati, il consigliere Marini – a dimostrare che sì, finora si è fatta molta teoria sulle riforme ma ora si parte davvero. E per farlo, per mettere le premesse di una riforma dell’assetto istituzionale che non sia, pure stavolta, una grande velleità che si risolve in un grande nulla, Meloni ha bisogno di una sponda con le opposizioni. Ma sul presidenzialismo non può trovarla. Sul premierato, invece, sì. E magari anche senza allestire una Bicamerale, luogo venerando ma che rimanda a tanti fallimenti: dalla Iotti-De Mita alla commissione D’Alema-Berlusconi con patto della crostata cucinato e sfarinato. 

Il premierato

Sul premierato è in corso il gioco di sponda ed è quello che Meloni prova a usare per mostrare che il suo afflato riformista è condiviso ben oltre il perimetro della sola maggioranza, stanando così, poi, eventuali posizioni preconcette da parte di Schlein e Conte. Bisognerà vedere però che connotati andrà prendendo questa modifica costituzionale. In FdI prospettano tre diversi scenari. Il primo, il più «incisivo», consiste nell’elezione diretta del Capo dello stato: bisognerebbe capire se sul modello del «sindaco d’Italia», dunque con un’elezione unica per esecutivo e legislativo e un paradigma che lega la vita del governo a quella del Parlamento (simul stabunt, simul cadent). Oppure in una forma più attenuata, sul modello del (non fortunato) sistema adottato in Israele a metà anni Novanta, e poi subito abortito perché finiva col causare più instabilità di quella che pretendeva di scongiurare. L’altra ipotesi è quella «spagnola»: una fiducia attribuita al solo capo del governo, che dunque avrebbe poteri e prerogative assai più estese (non un primus inter pares, com’è oggi in Italia, ma un presidente che sceglie e revoca ministri, e non solo). O infine, e sarebbe la declinazione più fiacca di questa riforma, l’introduzione di meri correttivi, come quello della sfiducia costruttiva, che guarda semmai al modello tedesco. Il tutto, beninteso, corredato da modifiche procedurali che, sia pure senza abolirlo, supererebbero il bicameralismo paritario: votazioni di fiducia congiunte, sessioni alternate, competenze differenziate.

Gli scenari

Ma per i dettagli, è ancora prestissimo. Per ora Meloni sta ascoltando.  E così capirà anche quale tattica adottare. Quella della convergenza, che mira a un percorso di lungo periodo, quanto più possibile largo e condiviso. Oppure, nel caso in cui le opposizione rispondessero in modo ostile, o nel caso in cui le contingenze lo suggerissero alla premier, quella della polarizzazione. Della serie: di là c’è la sinistra che vuole l’instabilità per fare nuovi ribaltoni, di qua la destra che governa nel nome dell’ordine e disciplina. Con l’approssimarsi delle Europee, la seconda - la via decisionista - potrebbe essere una tentazione.

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