IL CASO
ROMA Nelle regioni dei due focolai, Lombardia e Veneto, si è cominciato

Giovedì 27 Febbraio 2020
IL CASO
ROMA Nelle regioni dei due focolai, Lombardia e Veneto, si è cominciato a effettuare i test sul coronavirus in modo indiscriminato, senza limitarsi a coloro che hanno i sintomi. Questo ha causato uno spreco di risorse, perché comunque solo il 4 per cento di chi è stato esaminato è risultato positivo. In altri termini, nel 96 per cento dei casi erano falsi allarmi. Ieri è intervenuto il Consiglio superiore della Sanità che ha messo un punto fermo: i tamponi che rilevano la presenza del Sars-CoV-2 devono essere utilizzati solo per quei pazienti che hanno sintomi come febbre e tosse o per coloro che hanno avuto contatti stretti con persone risultate positive.
LE RAGIONI
Ci sono due ragioni all'origine di questa decisione: è vero che anche gli asintomatici possono essere contagiosi, ma in percentuale molto minore rispetto a chi ha sintomi e dunque, per arginare la diffusione del coronavirus è più utile concentrarsi su quella tipologia di pazienti; inoltre, svolgendo i test in maniera massiccia, si aumenta la possibilità di imbattersi in finti positivi come avvenuto in Piemonte. Gli infettivologi poi spiegano: la risposta che si sta dando in termine di test è imponente, nessun Paese può sostenerla con questi numeri. D'altra parte, in Lombardia, è stata necessaria una prima risposta massiccia, perché c'era il timore di non circoscrivere il focolaio di Codogno. Ormai in Italia, in totale, i tamponi eseguiti sono stati diecimila, ma il 75 per cento sono stati fatti tra Lombardia e Veneto. In particolare, nella regione di Zaia è risultato positivo meno del 2 per cento di coloro che sono stati sottoposti alla verifica. Comprensibile il desiderio di rispondere in modo perentorio all'emergenza di Vo' Euganeo, però resta il fatto che su quasi 5.000 tamponi, 4.900 sono risultati negativi.
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