Paolo Rossi e il Veneto: «É come se fossi nato a Vicenza. E quella volta in Brasile...»

Mercoledì 19 Febbraio 2020 di Angela Pederiva
Paolo Rossi ieri in Regione Veneto

Quando il Vicenza era il Lane, Paolo Rossi diventò Paolorossi. Tutto attaccato come un marchio del made in Italy, epico protagonista di una stagione del calcio entrata nella leggenda. Ma siccome la palla è ancora rotonda come allora, e la passione è la stessa di sempre, basta un niente perché il campione del mondo di Spagna 1982 accolga il nostro invito a formulare il suo pronostico sulle italiane che da stasera cominciano gli ottavi di Champions League: «Due su tre possono accedere ai quarti. Da una parte l'Atalanta ha concrete possibilità con il Valencia, dall'altra la Juventus non può certo fermarsi davanti al Lione. Invece temo che il Napoli abbia nel Barcellona l'avversario più difficile. Ma due su tre non sarebbe mica male, eh?».



A VENEZIA
Rossi ne parla a Venezia, la città in cui da giocatore famoso si rifugiava «al lunedì, quando c'era poca gente, magari pure la nebbia», accolto a Palazzo Ferro Fini dal consigliere regionale Luciano Sandonà e dal presidente Roberto Ciambetti per presentare Quanto dura un attimo (Mondadori), autobiografia romanzata a quattro mani con la moglie giornalista Federica Cappelletti. «Il titolo allude a quello che pensava di me Gianni Agnelli, a proposito della rapidità con cui coglievo l'istante giusto. Se in mezzo all'area qualcuno segna e non l'avete visto, sicuramente è stato Paolo Rossi, diceva l'Avvocato».
 



C'è tanto Nordest, in queste 300 pagine. La consacrazione con il Lanerossi Vicenza e la conclusione con l'Hellas Verona, certo, ma anche l'incontro decisivo con Giampiero Boniperti all'hotel Cristallo di Cortina («la Juventus era il mio sogno»), il rientro allo stadio di Udine dopo la sospensione per il calcioscommesse («ho perso due anni di vita, in piena carriera, per accuse infondate»), l'ultimo colloquio con Enzo Bearzot nella sua baita ad Auronzo («un friulano tutto d'un pezzo che sapeva usare bastone e carota»). E poi l'origine, rigorosamente veneta, del suo soprannome: «Paolo in Argentina diventa Pablito. È il giornalista del Gazzettino, Giorgio Lago, a usare per primo quel soprannome nei suoi articoli, facendogli conquistare una popolarità planetaria».

AL TI E BASSI
Quel primo Mondiale è «l'unico rammarico» della sua carriera. «Per me, che arrivavo da una squadra di provincia spiega , fu un'occasione straordinaria. Ma come azzurri non riuscimmo a salire sul tetto del mondo. Però quel 1978 è stato la semina per la raccolta del 1982». Del mitico Mundial, di cui fu capocannoniere nell'anno in cui ottenne pure il Pallone d'oro, più che i propri gol l'ex centravanti ricorda il presidente della Repubblica: «A differenza del 2006, in cui vinse una squadra, nel 1982 vinse l'Italia intera. E di quel successo Sandro Pertini fu il simbolo. Ricordo ancora le sue parole, la mattina della finale: Rossi mi raccomando, questi tedeschi sono duri. Salti, salti. Gli risposi: Va bene, salterò. E saltai».
Tante volte in su, qualche altra in giù. «Molti si ricordano solo i momenti in cui ho segnato le reti e alzato le coppe confida ma arrivare là è stato difficile. Dopo tre menischi rotti in tre anni, e in mezzo pure la frattura di un polso, tanti pensavano che non fossi fisicamente portato per il professionismo. La mia vita calcistica è stata un saliscendi di momenti belli e brutti. Oggi da Ronaldo a Messi sembra sempre che siano tutti al top, senza mai una flessione, mentre io ho avuto bassi e alti. Ma se sono uscito dalle situazioni difficili, è stato proprio perché ho saputo superare le prove. Come insegno oggi ai bambini della mia scuola calcio, il talento lo devi avere ma da solo non è sufficiente. Serve anche un carattere forte, com'è quello che mi ha permesso di reagire agli infortuni e alle ingiustizie».

UNA MAGIA
Non guasta poi un pizzico di fortuna: «Quella di arrivare in una città come Vicenza, in un momento storico in cui c'era una simbiosi perfetta tra la società e la gente. Quando mi chiedono se la Lazio di oggi è come il mio Vicenza di allora, dico di no. I biancocelesti sono una squadra costruita passo passo per arrivare dov'è, con giocatori come Luis Alberto e Milinkovic che sono costati tanto. Invece il mio Vicenza era nato casualmente: tre-quattro giocatori dell'anno precedente, qualche altro che aveva fatto male altrove ed era in cerca di riscatto, altri due-tre ragazzi come me. La nostra è stata quasi una magia». Un incanto che proprio ieri si è rinnovato, con il conferimento della cittadinanza onoraria di Vicenza al suo signor Rossi. «Tutti nel mondo pensano che io sia nato a Vicenza, del resto con i miei amici vicentini parlo in veneto».
Il 63enne ne dà prova ricordando la battuta dell'allora vicepresidente biancorosso Dario Maraschin, durante la trattativa sul suo primo ingaggio. «Chiesi 800.000 lire al mese, mi rispose: Tuti sti schei? Te si mato ti. Non strappai più di tanto, però poi il presidente Giussi Farina aggiunse una clausola: bonus di 50.000 lire a gol. Il primo anno ne segnai 18, il secondo 24. Mi pare ancora di sentirlo: Mi hai fregato! Chi, io?». Risate. E ricordi: «I più forti che ho incontrato? Platini era poesia, Maradona talento puro nel suo essere genio e sregolatezza, Zico straordinario. Fra gli italiani, cito i miei compagni in Nazionale: da Zoff a Tardelli, da Cabrini a Scirea». Tante soddisfazioni.

E IN BRASILE...
Anche se vincere un Mondiale, dopo aver rifilato tre gol al Brasile, dà anche qualche grattacapo. Come quella volta in taxi a San Paolo. «Era il 1989, ero con amici. Il tassista mi guardò e mi chiese: Sei Paolo Rossi?. E io: Beh, sì. E lui: Allora scendi. Mi ha lasciato a piedi».
 

Ultimo aggiornamento: 10:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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