Dispetti ed invidie, l'Udinese pronta a lasciare il suo stadio

Giovedì 10 Giugno 2021 di Marco Agrusti
Dispetti ed invidie, l'Udinese pronta a lasciare il suo stadio

UDINE Una questione a metà tra la lana caprina e la politica strictu sensu, quella fatta di baruffe e posizioni granitiche su posizioni dal valore materiale tendente allo zero, rischiano - in una storia tutta italiana per tempi e trama - di spegnere la luce del fenomeno Udinese. La squadra di calcio di Udine, elevata ad esempio su scala internazionale e prima realtà in Italia a dotarsi (spendendo 50 milioni di euro) di uno stadio moderno e soprattutto di proprietà, stretta in una morsa fatta di burocrazia attenta alle virgole e politica concentrata sulla guerra di trincea. Possibile? Sì, accade in questi giorni nel capoluogo friulano, in un'escalation che mette a nudo un mondo (pubblico) forse ancora drammaticamente impreparato ad accompagnare una realtà privata sulla strada del successo.

I FATTI
La bomba è stata sganciata martedì. «L'Udinese è pronta a lasciare Udine e lo stadio, la Dacia Arena.

La misura è colma». È la sintesi di un comunicato affidato al direttore amministrativo del club, Alberto Rigotto, ma dettato dalla proprietà, cioè dalla famiglia Pozzo. Il detonatore, una lettera dell'Anac (Autorità nazionale anticorruzione) contenente alcuni rilievi sulla gestione e sul nome dello stadio, concesso per 99 anni dal Comune di Udine alla società di calcio in cambio del rifacimento totale dell'impianto. Si contestano, nell'ordine, una fidejussione al momento della posa della prima pietra, la rendicontazione insufficiente dei lavori annuali di manutenzione per 240mila euro e la facoltà o meno di chiamare l'impianto Dacia Arena (nome commerciale come ce ne sono a dozzine in tutta Europa) e non Stadio Friuli. L'Udinese legge, metabolizza e poi minaccia di andarsene dalla città e dallo stadio costruito tra gli applausi di mezza Italia e non solo. La scansione temporale degli eventi però non basta a inquadrare ciò che sta succedendo a Udine. Come detto, oltre alla burocrazia, c'entra la politica. È lì che si autoalimenta con benzina illimitata un incendio che rischia di mandare in pezzi una delle imprese private più imitate anche all'estero.


LO SCONTRO
Anno 2008, Furio Honsell lascia la carica di rettore dell'università di Trieste e diventa sindaco di Udine con il centrosinistra. Si inaugura un rapporto speciale con la famiglia Pozzo, proprietaria dell'Udinese. Decolla il progetto del nuovo stadio. La sinergia pubblico-privato (miracolo) sembra funzionare. Honsell scava nei regolamenti, spulcia i codici legge per legge, e riesce a snellire le procedure. Si arriva alla firma dell'accordo: all'Udinese va la concessione per 99 anni dell'impianto pubblico, e poco dopo il vecchio Friuli diventerà l'arena moderna che si vede oggi in Serie A. Ma basta un colpo di vento, alimentato dal cambio di bandiera in municipio, a innescare la guerra fredda. A Furio Honsell nel 2018 succede Pietro Fontanini. Leghista, ex senatore ed ex presidente della Regione. I rapporti con l'Udinese diventano prima freddi, condizionati anche da una forte contrapposizione con la vecchia giunta comunale, per poi farsi tesi. Fino alla rottura. È dalla maggioranza retta da Fontanini, infatti, che tre anni fa parte la prima velina destinata all'Anac. Dal consiglio comunale decolla una lettera: si chiedono delle analisi all'anticorruzione sul rapporto tra l'Ente e la società privata. Si vuole analizzare punto per punto gli adempimenti in capo al club previsti dal contratto. È lì che inizia anche la battaglia sul nome dell'impianto: «Non Dacia Arena, ma Stadio Friuli», dicono dal Comune. Che poi è il nome che usano e sempre useranno i friulani, come i milanesi per San Siro. Un conto è lo sponsor, altro sono il cuore e la storia. Ma in Friuli ne nasce una questione di principio, culminata con lo strappo di poche ore fa. E i rendiconti sulle manutenzioni da 240mila euro l'anno? Figurarsi: solo il mantenimento del terreno di gioco (tra illuminazione notturna per far crescere l'erba e altri trattamenti) costa di più.


LA BUROCRAZIA
Altro passo indietro. L'Udinese non si è costruita solo uno stadio per il calcio. Certo, è il core business del club, ma la visione era - com'è accaduto spesso a Gianpaolo Pozzo, patron della società - più avanzata. L'impianto sarebbe dovuto diventare due-punto-zero. Cioè polivalente, come lo sono gli stadi più belli d'Europa, dove una volta la settimana si gioca la partita e negli altri giorni le porte sono aperte allo shopping, al divertimento, al turismo. Alla Dacia Arena dovevano nascere ristoranti, pub, una palestra. Questo solo per iniziare. Ma la prima lettera all'Anac ha spento l'entusiasmo del privato, vinto da una farraginosa procedura pubblica che ha reso impossibile dare seguito all'ambizione.


I RISCHI
Davvero la guerra di posizione della politica e la burocrazia possono mandare gambe all'aria uno degli esempi più virtuosi se si parla di gestione sportiva ai massimi livelli? Probabilmente no, i margini di manovra per trattare ci sono. Anche Gino Pozzo, figlio del patron Gianpaolo, è sceso in campo per iniziare un'opera di mediazione. Ha appreso con sconcerto l'improvvisa accelerazione degli eventi e pur restando convinto dell'eccessiva tensione che si respira in città, da Londra dove risiede proverà a ricucire. Se non altro per tutelare i suoi investimenti. Nelle stesse ore, alla Danieli di Buttrio (gigante delle acciaierie a pochi chilometri di Udine), il presidente del gruppo Giampiero Benedetti inaugurava con queste parole un maxi-impianto tra i più tecnologici al mondo: «I politici passano, la burocrazia resta». Paradigmatico.
 

Ultimo aggiornamento: 16:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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