Un discorso motivazionale. Che denota le difficoltà che Putin ha sul campo di guerra e che serve a riscaldare gli animi e le forze del suo esercito in queste ore cruciali dell’attacco finale, se finale sarà, contro Mariupol già distrutta e che resta da conquistare sul terreno. Putin nel suo discorso di oggi, dopo quello allo stadio moscovita, cerca di esorcizzarle i problemi logistici e strategici dell’invasione in Ucraina alzano i toni della sfida e lanciando soprattutto ad uso interno una serie di messaggi. Per dire: siamo i più forti, stiamo nel giusto («Inevitabile l’operazione in Ucraina dopo il genocidio che i nostri connazionali subiscono da anni nel Donbass») e nessuno ci potrà fermare. Un misto di vittimismo, di rabbia, di evocazione del destino storico della Russia («Siamo grandi e grandi resteremo») e specialmente, quando dice «impossibile isolarci», una sorta di minaccia all’Occidente che contiene due elementi: le vostre sanzioni non ci piegano e la Cina (insieme all’India e a molti altri Paesi) è con noi.
Putin, il discorso tra presente e passato
La retorica è da nuova guerra fredda e calda.
I simboli
La scenografia in cui Putin ha scelto di ambientare il suo comizio - gli stabilimenti dell’industria aerospaziale, cioè il cosmodromo di Vostochny, nell’estremo oriente della Federazione russa e laggiù si è fatto accompagnato dal fido alleato Alexander Lukashenko, presidente della Bielorussia - dice tutto sul contenuto del suo discorso. E anche il giorno scelto per parlare non è casuale. L’occasione è infatti la Giornata della Cosmonautica, anniversario celebrato in Russia e in alcuni altri Paesi dell’ex Urss per ricordare il primo volo spaziale con equipaggio effettuato il 12 aprile del 1961 dal cosmonauta sovietico russo Yuri Gagarin. Caro mondo che ci ha snobbato, non c’è più l’Urss ma non crediate di aver cancellato la vocazione imperiale e la grande spinta geo-politica della Russia perché queste esistono ancora, ed eccome, e ve lo stiamo dimostrando in Ucraina. La guerra, anzi «l’operazione militare speciale» in quel Paese martoriato dai carri armati con la Z, il leader russo la considera una sorta di guerra giusta (anche se non la chiama guerra), un conflitto difensivo («Non potevano continuare a subire il massacro anzi il «genocidio» dei russi in Donbass ma anche un avvertimento che la storia non è finita e «abbiamo tanta altra storia davanti».
Ancora una volta l’espressione «nazisti» (i nazisti ucraini) ricorre nel discorso putiniano. E mai come questa volta l’uso dell’accusa di hitlerismo serve al leader russo perché la sua intenzione è chiara. Avere una clamorosa vittoria in Donbass, visto che nel resto dell’Ucraina l’invasione stenta e i morti nell’esercito russo sono troppi e sempre più difficili da nascondere sotto la coperta della propaganda, non solo è fondamentale per Mosca ma le serve averla entro il 9 maggio. Perché quel giorno si celebra l’anniversario della vittoria russa contro i nazisti nella seconda guerra mondiale e Putin vuole usare quella ricorrenza non solo per stabilire che i nazisti di oggi vengono sterminati come i nazisti di ieri (inutile sottolineare il pasticcio storico costruito dalla retorica del Cremlino) ma per infondere nei russi quel senso della sfida nazionalista senza il quale Putin resta privo di motivazioni e rischia di far fallire il suo progetto espansionistico condotto anche a colpi di stragi, anzi no: «I morti di Bucha li hanno inventati gli ucraini» ovvero «i nazisti». Ma c’è un filo logico in tutta questa confusione: ed è l’irriducibilità della Russia, almeno quella immaginata da Putin, a vivere in un contesto internazionale in cui i legittimi interessi geopolitici non si traducano in missili e bombardamenti.