Paolo Graldi, morto l'ex direttore de “Il Messaggero”. Dalla carta stampata alla tv, la carriera di un giornalista di razza

Sabato 30 Dicembre 2023 di Mario Ajello
Paolo Graldi, morto l'ex direttore de “Il Messaggero”

Non coltivava relazioni, curava amicizie Paolo Graldi.

Non era saccente, era sapiente. Non inseguiva i politici né si faceva inseguire da loro. Non si dava arie da pensatore, era semmai un consigliere nel senso che riservatamente e affettuosamente dispensava suggerimenti: umani, morali, professionali e perfino medici (da bimbo voleva fare il dottore al pronto soccorso e fino all’altro giorno se gli dicevi «Paolo, mio figlio ha un rossore dietro all’orecchio» lui si mobilitava all’istante tra dermatologi e bugiardini) e tecnologici (era appassionato di ogni apparecchio digitale e oltre alla scrittura adorava la fotografia). Ora che Graldi non c’è più, ed è appena scomparso a 81 anni, viene da pensare a tutto ciò che lui non è stato e questo si può riassumere (anche se ne servirebbero un milione) in sette parole: non è mai stato il giornalista tipico. Che, al contrario di Paolo, è in molti casi inutilmente polemico, corporativo e auto-referenziale, più rivolto al passato che al presente e al futuro (c’era sempre l’avvenire in quello sguardo, dietro le lenti dei suoi occhiali tondi e la nuvola di fumo) e così concentrato su se stesso («Mi sono letto e mi sono piaciuto un sacco stamattina», era il modo in cui lui  metteva in caricatura i colleghi narcisi, oppure: «Ciao, come sto?») che non può arrivare dove Graldi alloggiava comodamente e con spirito leggero ma profondo, libero di spaziare su tutto senza atteggiarsi a tuttologo e capace di non prendersi sul serio pur essendo una persona seria.

Un giornalista "atipico"

La sua cifra è stata quella dell’umiltà, della generosità, dell’infinita empatia. Era un personaggio magnificamente anomalo questo giornalista, questo direttore, quest’uomo curiosissimo di ogni cosa e di ogni persona. Un po’ mago e un po’ bambino, si divertiva come un piccino giocando con i mini prototipi di Ferrari poggiati nel suo salotto. E, da bolognese alla Dalla, che era stato suo amico di gioventù, era pazzo per l’automobilismo, anche se dopo i primi giri del Gran Premio si addormentava davanti alla mega-tivvù ultra tecnologica. La teneva sempre accesa negli ultimi anni, perfino per guardare i talk show dicendo: «Fanno schifo ma non bisogna snobbare lo schifo». 

Graldi, la biografia

Verrebbe, in questa occasione così triste per chiunque lo abbia frequentato (c’è chi lo chiamava lo «Spargi-affetto»), di parlare soltanto dell’uomo, che comunque coincideva con il giornalista, e però la sua carriera è stata talmente brillante che eccola in brevissimi cenni. Ha diretto il Mattino; ha guidato il Messaggero; ha avuto grazie a Francesco Gaetano Caltagirone, di cui è stato amico per lunghi decenni e fino alla fine, un ruolo cruciale in questo gruppo editoriale; ha fatto molta tivvù e radio, e la sua voce profonda da fumatore incallito e da attore o da crooner da giovane lo aveva portato a partecipare insieme a Dalla alla compagnia amicale dei Cantapoeti che giravano per le strade della loro città recitando versi musicati e Lucio suonava la fisarmonica. E comunque: Graldi era nato a Bologna il 27 maggio 1942, esordì giovanissimo su alcune testate locali, si trasferì a Roma per lavorare prima con Paese Sera, poi con il Corriere della Sera di cui è stato cronista di punta, giudiziaria e altro, e capo della redazione romana. Vice direttore con Sergio Zavoli al Mattino, nell’ottobre 1994 è stato nominato direttore dalla Fondazione Banco di Napoli rimanendo al timone del quotidiano di via Chiatamone fino al 2001, quando l’editore Caltagirone gli ha affidato la guida del Messaggero per tre anni e poi lo ha nominato direttore editoriale. Come editorialista, ha scritto per tutti i giornali del gruppo. Per la tivvù ha collaborato a gran parte delle trasmissioni di Enzo Biagi, è stato caporedattore con Zavoli a «La notte della Repubblica» e via così: «Viaggio intorno all’uomo» ma anche come autore per Raiuno l’inchiesta in venti puntate «Io e il fumo», «Io e il telefono», «Io e il cibo».

Fumo? Vini? Cibo? Una trinità per lui intoccabile. Finché «qualcuno da lassù non mi ha messo la mano sulla testa e mia ha mandato Simona», diceva lui, innamoratissimo della donna che è diventata sua moglie nel 2017, che lo ha adorato e avvolto di tenerezza e cura, e alla quale ripeteva spesso: «Siamo io e te, te e io, più tanti amici». E ancora: è stato il primo giornalista a intervistare per la tivvù Ali Agca e, sul Corriere della sera, il primo a intervistare il superpentito Tommaso Buscetta. La mafia e prima gli anni di piombo del terrorismo. Insieme a quello di Alfonso Madeo, c’era anche il suo nome nelle lista delle Brigate Rosse che uccisero un altro grande giornalista presente in quell’elenco: Walter Tobagi. 

Il ricordo

Gli mancava la cattiveria in un mestiere in cui può anche servire. Ma aveva le doti per farne a meno. Non si può descriverlo davvero, senza raccontare il clima che si respirava, quando abitava nella bella casa di via Gramsci ai Parioli, nelle cene che organizzava di continuo. Ci trovavi l’alto papavero dello Stato e il cronista alle prime armi, gente di spettacolo («Ragazzi, eccomi qua», e dall’ascensore usciva Renzo Arbore) e aspiranti attori, rappresentanti delle forze dell’ordine mescolati a passanti. Una volta, c’erano sul divano un ragazzo e una ragazza sconosciuti. Viene chiesto loro da un commensale: «Ma voi chi siete?». E i due: «Abbiamo conosciuto il dottor Graldi stamattina. Eravamo da Gargani, la salumeria a Viale Parioli, entra un signore e sembra volerla comprare tutta intera. Noi ridiamo e lui ci fa: sapete, stasera ho una cena a casa, volete aggiungervi?». Questo era Paolo. E non c’era mai una fogliolina d’insalata o un pezzetto di verdura sul tavolo imbandito, l’unico elemento verde era la pasta delle lasagne che si faceva mandare in quantità industriale da Bologna e le conservava in tre pozzetti frigo. Gliele preparava e spediva un signora bolognese, Magda. E non parliamo del ragù o dei tortellini, dei quali si narra che fossero numerati (come esemplari unici). 
Convivialità, sì, al massimo grado. Salottismo, no. Lo detestava. Una delle sue massime: «Non si può passare per i salotti e lasciar decidere ai salottisti se sei bravo o no. Preferisco andare a casa di persone che mi invitano senza il retropensiero di avere qualcosa da chiedermi o da darmi». E a proposito di motti graldiani: «I direttori non si amano, si rimpiangono». Oppure: «Il segreto di un direttore è capire una cosa, collegarne due, possibilmente rispondere con coerenza a tre». 

Questo era Paolo, anzi no: era molto di più. Ci mancherà culturalmente perché  capiva l’evoluzione della nostra società e politicamente perché era stato post ideologico prima degli altri e se gli parlavi di destra e sinistra età come se lo intrattenessi sul nulla perché per lui contava soltanto chi, oltrepassando etichette e steccati, ha la sensibilità, la forza e la competenza pratica per far evolvere l’Italia. Era un progressista, anche se non amava aggettivi di questo tipo, per lui inutilmente altisonanti, e non un conservatore. Ed era uno che capiva sogni e bisogni  degli amici (ognuno di questi pensa  di avere perso l’amico di una vita) e, giornalisticamente, delle persone comuni. Il suo brano prediletto era «Canzone» di Dalla. E la dedichiamo a lui: «E come lacrime la pioggia / mi ricorda la sua faccia / io la vedo in ogni goccia / che mi cade sulla giacca».

Ultimo aggiornamento: 31 Dicembre, 11:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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