Desirée Mariottini, nuovo processo per i 4 imputati: la Cassazione fa cadere l'accusa di omicidio per Mamadou Gara

La 16enne originaria di Cisterna di Latina è morta il 19 ottobre del 2018 a causa di un mix di droghe dopo essere stata abusata in un immobile abbandonato a Roma

Venerdì 20 Ottobre 2023
Desirée Mariottini, cadono in Cassazione alcune accuse: ci sarà un appello bis

Non c’è ancora la parola fine nel processo sulla morte di Desirée Mariottini, la 16enne originaria di Cisterna di Latina, morta nella notte tra il 18 e il 19 ottobre del 2018 nel quartiere romano di San Lorenzo a causa di una dose massiccia di metadone che le era stata somministrata dai suoi aguzzini, insieme a un mix di cocaina, eroina e psicofarmaci, allo scopo di violentarla. È quanto deciso ieri sera dalla Cassazione, dopo quasi quattro ore di camera di consiglio, nonostante in mattinata il sostituto procuratore generale Simone Perelli avesse chiesto di confermare tutte le condanne per gli imputati. Si celebrerà un nuovo giudizio davanti a un’altra sezione della Corte d’assise d’appello di Roma nei confronti di tutti e quattro i cittadini di origine africana, anche se in relazione a capi di imputazione diversi.

LE ACCUSE
I giudici supremi hanno rimesso in discussione per il senegalese Mamadou Gara (detto Paco) l’accusa di omicidio e di conseguenza la condanna all’ergastolo. Accusa di omicidio che invece resta confermata per gli altri tre imputati. Per il nigeriano Chima Alinno (detto Sisco), a cui erano stati inflitti 27 anni, e per il senegalese Brian Minteh (detto Ibrahim), che aveva avuto 24 anni e mezzo di reclusione, è caduta l’aggravante della violenza sessuale contestata al reato di omicidio. Le loro pene subiranno quindi, probabilmente, un ridimensionamento. Ci sarà un nuovo processo per Minteh anche in relazione all’accusa di cessione di droga. È stato invece definitivamente assolto dal reato di stupro il ghanese Yusif Salia (detto Youssef), che era stato condannato in secondo grado all’ergastolo.

Secondo diverse testimonianze, è stato proprio lui a pronunciare la terribile frase: «Meglio lei morta che noi in galera», mostrandosi minaccioso verso chi tra i presenti voleva chiamare i soccorsi. Una volontà che era stata definita «cattiva» dal pg della Corte d’assise d’appello, legata «al desiderio di mantenere il loro commercio di droga: nessuno doveva sapere cosa succedeva in quella casa», anche se una telefonata al 112 «sarebbe bastata a salvarla». 

LA VIOLENZA
«È un dispositivo complesso, andranno lette le motivazioni relativamente ai giudizi di rinvio - commenta Claudia Sorrenti, avvocato della zia di Desirée - Quello che ha sconvolto la madre e i familiari è la non conferma dell’accusa di violenza sessuale per uno dei impuntati, anche se resta la condanna all’ergastolo. È una sentenza che farà discutere, anche se l’accusa di omicidio ha retto per tre imputati».

La ragazzina, vittima di abusi sessuali, fu trovata senza vita in un immobile abbandonato nel quartiere San Lorenzo. L’accertamento medico-legale ha stabilito che le lesioni riportate dalla 16enne testimoniano che, finché era cosciente, aveva opposto resistenza a un rapporto sessuale completo. A ulteriore riprova, i periti avevano fatto presente che la «lacerazione della membrana imenale» risaliva a poco prima del suo decesso. In parole povere, la minorenne perse la sua verginità a seguito delle violenze subite nello stabile di via dei Lucani.
In base all’impianto accusatorio, i quattro cittadini di origine africana non fecero sostanzialmente nulla per cercare di salvare la vita alla ragazza originaria della provincia di Latina. «Lo stato di semi incoscienza in cui versava le impedì anche di rivestirsi. Desirée respirava appena e nonostante fosse incosciente - disse il procuratore generale nel corso del primo processo di appello - gli imputati rimasero indifferenti. Dicevano che si stava riposando pur sapendo che aveva assunto sostanze». 

Ancora più pesante quanto cristallizzato dai giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza del giugno 2021. «Non si trattò solo della cinica e malevola volontà di non salvare la giovane dall’intossicazione - scriveva la Corte d’assise di Roma - di cui loro stessi erano stati autori e di impedire le indagini delle violenze da lei subite, ma in forma più estesa, di conservare la propria “casa” e le proprie fonti di “reddito”, oltre ad un tranquillo e sostanzialmente indisturbato luogo di consumo degli stupefacenti, che rendeva eccezionale e noto quel rifugio». 

IL LEGALE DI ALLINO
«La Cassazione è stata coraggiosa, riformando la sentenze d’appello (copia e incolla di quella di primo grado) che non aveva fatto giustizia, lasciando enormi voragini - commenta l’avvocato Giuseppina Tenga, legale di Chima Alinno - La vittima aveva sul corpo tanti dna di soggetti non identificati. D’altronde il mio assistito era già stato assolto nei gradi precedenti dal reato di stupro, quindi l’aggravante non poteva logicamente sussistere. Questo è il processo degli ultimi: persone povere con avvocati di ufficio. A questo punto penso di chiedere la scarcerazione per scadenza termini». 

Ultimo aggiornamento: 22:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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