La lezione di Auschwitz, dove una
partita di calcio valeva un pezzo di pane

Venerdì 8 Giugno 2012 di Edoardo Pittalis
Chiellini e Balzaretti guidano i giocatori italiani ad Auschwitz (foto Ansa)
Ad Auschwitz e a Birkenau si giocava anche a pallone. Un gol o una parata valevano un pezzo di pane o una patata. I nazisti si divertivano a vedere giocare campioni ridotti a scheletri, scommettevano, punivano, premiavano. Anche quelli che erano stati famosi non avevano nome, un numero sul braccio non sulla maglia. Spesso dopo aver fatto un gol venivano messi in fila per le camere a gas. Si giocava su spazi dove l’erba non cresceva mai verde e ogni filo era intriso dell’odore di morte che arrivava dai forni crematori.



Ad Auschwitz c’era gente che sapeva davvero di calcio. Arpad Weisz era il migliore allenatore del suo tempo, dopo essere stato un buon calciatore, nazionale ungherese, mediano dai piedi buoni nell’Alessandria e nel Padova, tecnico vincente con l’Inter e poi col Bologna. Fu lui a scoprire Giuseppe Meazza e a farlo esordire quasi bambino in nerazzurro; lui a interrompere il predominio della Juventus e a far diventare il Bologna “lo squadrone che tremare il mondo fa”. Ne italianizzarono il cognome, lo accettarono fino a quando le leggi razziali non lo costrinsero a fuggire. Era ebreo ed è morto ad Auschwitz con moglie e figli.



Weisz è soltanto uno dei tanti del mondo del calcio e dello sport sterminati per la follia del nazismo e della guerra. Eppure perfino in quella che sembrava una porta dell’inferno spalancata dall’uomo, lo sport cancellava per un istante la tragedia, faceva sentire vivi in un mondo di morti.



Raccontano le cronache che i calciatori azzurri in visita ad Auschwitz si sono emozionati e turbati. La storia ad ascoltarla è suggestiva e tremenda, bellissima ed educatrice. Ti fa vedere la gloria e un attimo dopo l’orrore. Auschwitz è memoria che tutti dovrebbero guardare in faccia almeno una volta nella vita, ci dovrebbero mandare le classi in viaggio d’istruzione, gli ultras degli stadi in viaggio di civiltà, tutti a lezione di umanità. Giusto che una Nazionale si sia confrontata col passato, che abbia capito che ovunque vada a giocare non esiste una terra così nuova da non nascondere sottoterra dolore ed errori.



Auschwitz poi è speciale per far capire. Lo è da quando ci entri a quando esci, per quei binari dove i treni portavano persone e facevano scendere numeri, portavano speranze e facevano scendere il nulla. Lo è per il silenzio nel quale non si sentono mai gli uccelli cantare, per quei disegni tracciati da bambini sulle pareti di una baracca: loro immaginavano un mondo che non avrebbero mai visto, cinesi col codino, aiuole fiorite. Per quasi tutti loro il futuro finiva il giorno dopo. Lo è perché lì capisci anche che lo sport può avere ancora un senso. Perfino il pallone, oggi sgonfiato da scandali e miserie di giovani avidi e corrotti, può ancora rotolare se non felice almeno consapevole di poter ricominciare.



Piero Terracina è uno dei pochissimi ebrei italiani sopravvissuto ad Auschwitz. Ha raccontato di essere tornato alla vita due anni dopo la liberazione soltanto quando ha potuto giocare per intero una partita di pallone. Aveva 19 anni, nel campo di sterminio era entrato tredicenne, non era impazzito anche sforzandosi di ricordare a memoria le formazioni delle squadre di calcio, quella della nazionale campione del mondo del 1938: Olivieri, Foni, Rava… Quella della sua Roma campione d’Italia nel 1942: Masetti, Andreoli, Brunella…. Poche settimane dopo il trionfo mondiale Terracina non poté più sentire alla radio la voce di Niccolò Carosio, anche ascoltare era vietato agli ebrei. Poche stagioni dopo lo scudetto, Terracina fu deportato nel lager. Fu fortunato, sopravvisse all’orrore e al ricordo. Ci volle una partita di calcio, una vera, con porte, maglie, grida, gol, per rendersene conto. E in palio non c’era un pezzo di pane, c’era il futuro.
Ultimo aggiornamento: 10:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA