Nell’imminenza della discussione, e della probabile approvazione, della riforma Cartabia, l’Associazione Nazionale Magistrati ha minacciato lo sciopero.
Ora l’Anm ripete la recita nel suo momento peggiore: lo scandalo Palamara e le indagini sulla Procura simbolo di Mani Pulite ne hanno compromesso la credibilità in modo irrimediabile, e probabilmente uno sciopero le sarebbe fatale. Peccato, perché la Magistratura non si merita questo epilogo inglorioso. Le ragioni per le quali lo sciopero sarebbe una follia sono due: una ragion pura e una ragion pratica. La prima è evidente: un magistrato, in quanto percettore di un reddito e di una pensione è, sotto questo profilo, un qualsiasi impiegato statale, e quindi può benissimo scioperare se vengono vulnerati i suoi diritti di lavoratore. Tuttavia, in quanto rivestito della toga, rappresenta il terzo potere dello Stato: il suo dovere è di applicare le leggi, non di opporvisi con l’arma dell’ostruzionismo o dell’astensione. Sarebbe come se scioperassero il Parlamento o il Governo. Ma a questa ragion pura si affianca una ragion pratica, per certi aspetti anche più importante. Sappiamo benissimo quanto la lentezza e l’inefficienza della nostra giustizia influiscano sulla nostra economia e sugli investimenti nazionali e stranieri. Studi approfonditi hanno dimostrato come queste criticità impattino sul Pil nella misura del 2 per cento, e forse più. Non solo. Così come ogni imputato ormai chiede al proprio difensore quale sia la corrente ideologica cui appartiene il suo pm o il suo giudice, così ogni imprenditore esamina accuratamente tempi e metodi dell’amministrazione della Giustizia laddove intenda investire e produrre. Se un tempo la delocalizzazione era determinata essenzialmente dalla riduzione dei costi del lavoro, oggi una sua componente importante è l’incertezza dei rapporti giuridici, disciplinati da norme oscure e contraddittorie, e applicate dai magistrati con una disinvolta volatilità interpretativa.
La giustizia penale ha aggredito gli amministratori locali, i quali, paralizzati dalla cosiddetta “paura della firma”, hanno adottato una timida condotta difensiva, cioè l’inerzia e talvolta il prudenziale diniego di provvedimenti essenziali. La giustizia civile, con la sua lentezza, ha incentivato gli inadempimenti contrattuali dei fornitori e degli acquirenti. Nei convegni degli imprenditori le lamentele cambiano: ora sull’approvvigionamento di materie prime, ora sulla conflittualità sindacale, ora sull’invadenza della burocrazia, ora sull’oppressione tributaria, ecc. Una sola rimane costante: quella sulla inefficienza e inaffidabilità della nostra giustizia, che compromette lo sviluppo e contribuisce alla stagnazione e al declino. Se in questo quadro già desolante si inserisse lo sciopero dei magistrati, il nostro sistema complessivo - già vulnerato dalle ripetute crisi finanziarie, dall’epidemia e dalla guerra - subirebbe un colpo ulteriore. Non diciamo che sarebbe fatale, perché le risorse del Paese sono molteplici, se non proprio inesauribili. Ma costituirebbe un messaggio calamitoso verso i cittadini e lo stesso governo, che con tutti i suoi limiti sta facendo miracoli per tenere in piedi questa vacillante impalcatura.
Gli italiani non solo non lo capirebbero, ma ne resterebbero disgustati. Con la consueta combinazione di timore riverenziale e di diffidenza ostile che nutrono verso l’Autorità, essi considerano la magistratura una corporazione favorita. Non è così, perché il lavoro della stragrande maggioranza delle toghe è maggiore rispetto alla media europea, e la loro retribuzione è in linea con quella dei colleghi. Ma questa è la percezione soggettiva dei cittadini, perché l’arroganza di alcuni pm e l’irresponsabilità per errori anche gravi hanno creato il mito di una casta intoccabile, che reagisce a colpi di inchieste, spesso infondate, quando si toccano i suoi privilegi. E il ricorso allo sciopero, tipico strumento di lotte sindacali, ne minerebbe l’ultima parvenza di imparziale neutralità.