Qual era il Paese più forte d’Europa prima dello scoppio della guerra in Ucraina, quello che tutti gli Stati membri dell’Unione venivano spinti ad emulare, con la sua economia basata su un surplus strutturale di esportazioni?
La Germania.
L’energia è il settore che è immediatamente in primo piano in molti dei discorsi di queste settimane, considerando che Mosca la sta usando come arma fondamentale per esercitare pressione sull’Europa. Ma ci sono altri settori altrettanto rilevanti, dai cerali (quindi pane e pasta, ma anche mangimi, per cui polli e bestiame), sementi varie (quindi olii e industria dolciaria e di trasformazione) e fertilizzanti (quindi tutto il comparto agro-alimentare). Ancora una volta la Cina si è mossa con largo anticipo su tutti, facendo land-grabbing un po’ ovunque nel mondo: dall’Asia al Sudamerica, dall’Australia all’Africa. Potremmo dire soprattutto all’Africa, che è stata per troppo tempo un oggetto di una politica europea ondivaga e schizofrenica, volta da un lato a cercare di tutelare l’agricoltura europea e dall’altro a consolidare buone partnership con quel continente che dall’ultimo ventennio dell’Ottocento fino al terzo ventennio del Novecento proprio gli europei avevano spietatamente sfruttato se non saccheggiato.
Se torniamo all’importante eurosummit di Versailles di qualche settimana fa, cogliamo meglio le implicazioni strategiche, la necessità di un vero e proprio cambio di rotta, che derivano dalla giusta consapevolezza di come una maggiore autonomia politica, militare ed energetica siano necessarie per proteggere le nostre società aperte, i nostri valori e le nostre istituzioni. In termini molto semplici, significa considerare che il rischio politico gioca un ruolo tanto decisivo del rischio economico. Per alcuni aspetti direi oggi persino superiore, perché lo abbiamo troppo a lungo sottovalutato (si pensi al Nordstream 2).
Credo che l’incubo peggiore per la Germania (e anche per noi tutti) sia la possibilità che all’allineamento politico tra Cina e Russia possa corrispondere una manovra a tenaglia della chiusura dei suoi mercati di approvvigionamento delle materie prime (import) con quelli di sbocco dei suoi prodotti ad alto valore aggiunto (export). Questo dovrebbe spingere tutti i governi d’Europa, compresi quelli “frugali”, a riconsiderare come sia decisiva e impellente la conversione verso un modello economico non più trainato, direi “drogato”, dalle esportazioni ma invece maggiormente “assicurato” allo sviluppo della domanda interna e – in termini energetici – sempre più indipendente dalle fonti fossili (e per la parte residua più attento non a un generico “rischio Paese” ma alla “minaccia Paese”, per cui meglio il gas qatarino che russo) ma invece fondato su rinnovabili ed, eventualmente, più o meno futuribili modalità di produzione d’energia.