Concorso per 400mila/ La scuola è in crisi ma c’è la corsa a diventare prof

Martedì 20 Febbraio 2024 di Cecilia Lavatore

Circa 373 mila candidati hanno presentato domanda per partecipare alle prove del concorso pubblico che partirà l’11 marzo e porterà all’assegnazione di 15.340 cattedre.

Il numero degli aspiranti docenti è sorprendente se analizzato nell’ottica della crescente sfiducia verso le istituzioni scolastiche e chi le rappresenta. Considerati gli scoraggianti fatti di cronaca che giungono dalle aule italiane ogni giorno e le tante testimonianze dirette degli insegnanti già inseriti negli organici, la scuola non sembra essere propriamente un orizzonte felice a cui ambire. Dunque, cosa motiva questi candidati? L’interrogativo è aperto.

Per certo, che gli insegnanti svolgano uno dei mestieri più belli al mondo - se non il più bello - è ancora convinzione di molti. Anche di molti che insegnano. Nonostante le difficoltà, sono in tanti i professori che si dedicano alla docenza con entusiasmo e passione. Quando questo lavoro piace, le gratificazioni sono già connaturate alla professione in sé e alle sue dinamiche, non c’è bisogno di conferme esterne, né di particolari premi o riconoscimenti. Il valore di ciò che si produce a scuola è un valore che si autodetermina e si autoalimenta.

Il nostro è un artigianato d’eccezione: non c’è un prodotto finale da vendere, il prodotto finale è già la materia prima che abbiamo, ossia gli esseri umani con cui siamo in classe ogni giorno. E lo scambio è reciproco: si riceve quanto, se non di più, di quello che si dà. Questo, fuor di metafora e di retorica, è un bilancio concreto e diffusamente sentito. Se l’equazione funziona, diventare insegnante significa poter vivere con intensità e umanità la vita quotidiana e godere di punti di vista straordinari sulla società e sul suo futuro, elementi che rendono la nostra categoria indubbiamente privilegiata.
Ora, i maligni diranno che il privilegio è anche quello di lavorare 18 ore a settimana, di poter usufruire di numerosi giorni di ferie e, nel caso dei docenti di ruolo, di poter firmare il contratto statale. Chiunque insegni o abbia in famiglia insegnanti sa quanto lontane dalla realtà siano queste ricorrenti allusioni più o meno esplicite e polemiche alle nostre “fortune”. Le mattinate che trascorriamo nelle classi, soli di fronte all’impeto e alla complessità dell’adolescenza moltiplicata per decine di individui, sono tanto faticose e “drenanti” da giustificare nella sua totalità ogni aspetto delle nostre condizioni lavorative.
Specialmente l’investimento emotivo necessario alla relazione che costruiamo con gli studenti è impegnativo e oneroso, seppure affascinante. 

Come non menzionare, inoltre, gli ulteriori ostacoli ai quali chi sceglie oggi questa occupazione in Italia va incontro: le carenze del sistema scolastico, l’inerzia che lo rallenta, l’esorbitante e insensata quantità di burocrazia da gestire, lo stipendio contenuto (se non contenutissimo quando rapportato ai costi della vita in città), i fatiscenti edifici in cui si opera, la diffusa ostilità e aggressività delle famiglie degli studenti e degli studenti stessi, la presunzione di una società che sembra non avere più bisogno delle nostre lezioni. 

Dunque, le migliaia di candidati che a breve proveranno ad accedere alla professione sono coscienti di ciò a cui vanno incontro? La speranza è che abbiano una buona predisposizione all’altruismo e alla filantropia e siano mossi da un autentico amore per la missione educativa.
Perché se, invece, la ricerca è piuttosto mirata a trovare un porto sicuro o un ripiego dopo aver fallito altri tentativi e percorsi, la frustrazione, già molto comune tra le mura scolastiche, a mio avviso è assicurata.

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