L’Italia e il caso debito/Il dovere dell’Europa di ricostruire la fiducia

Venerdì 29 Novembre 2019 di Giulio Sapelli
Si afferma spesso che l’Unione Europea, così come l’Unione Economica Europea, siano state via via colpite, nella loro storia, dalla progressiva diminuzione di quella forza aggregante che è la fiducia. La fiducia che, prima della solidarietà, è alla base della costruzione delle organizzazioni con il minimo spreco e il minimo costo dei controlli e delle procedure di coordinamento.

Tali misure, per essere efficaci, non devono essere solo e prevalentemente affidate agli algoritmi, ma soprattutto ispirate alla riconoscibilità reciproca degli attori che formano l’organizzazione e ne assicurano la continuità. Ben si comprende come sia esattamente la fiducia che sta venendo meno in una Europa che si trasforma sempre più in un patto commerciale o in una rete di contratti che debbono essere sorvegliati e gestiti da enormi apparati di controllo e di prevenzione delle reciproche frodi: il punto è che la fiducia degli attori contraenti il patto è in profonda crisi. 
La prova sta nel ricorso sempre più a un vocabolario commerciale anziché politico nei dibattiti europei e nella asimmetria delle regole che governano le diverse e stratificate istituzioni europee, regole che son così tante e complesse che anche coloro che dovrebbero conoscerle e che parlano di esse cadono in errore. 


Per non dire delle contraddizioni e delle sovrapposizioni prive di coerenza assai frequenti nel complesso di norme che regolano l’Unione. Ad esempio, perché mai in sede di Consiglio Europeo si vota all’unanimità quando si tratta di questioni vitali per la situazione non solo dei singoli Stati, ma dell’Europa nel suo complesso (e questo perché solo se la situazione economica e sociale di tutti i partner si sviluppa armonicamente l’Europa potrà sopravvivere), mentre in sede Fondo salva-Stati (Mes) varrà la regola della maggioranza, ossia degli Stati più forti? In una situazione tanto precaria, non sarebbe più opportuno mutare le regole del Mes, di cui dirò, e sottoporle al vaglio parlamentare europeo prima di procedere all’Unione Bancaria? E questo perché è solo la fiducia, che è una risorsa morale e culturale, che può assicurare la continuità di un disegno europeo sostenibile e inclusivo.

Stupisce che sulla questione del Mes non si sia rimandato al Consiglio tutta la discussione e tutte le decisioni e si sia scelto, invece, di elaborare un trattato internazionale che si presenta in guisa di trattato commerciale. E non posso non ricordare, allora, che il diavolo è nei dettagli. L’espressione era spesso usata da quel grande antropologo e storico dell’arte che era Aby Warburg il quale, nei suoi testi e soprattutto in quel capolavoro che è “L’Atlas Memosines” (che recentemente il College de France ha meritoriamente ripubblicato in una preziosa edizione), sosteneva che la verità si nasconde nei particolari e che è proprio la sua discoperta che è l’obbligo dell’intellettuale. Warburg scopriva la verità simbolica dell’opera d’arte: il politico dovrebbe sempre disvelarla per rispettare il patto costituzionale che lo lega alla nazione e al popolo sovrano.

Tuttavia, così come accadeva per Warburg nella critica d’arte, sono proprio coloro che dovrebbero detenere la verità a non disvelarla troppo spesso, annegando in un fiume di parole la verità stessa, come è accaduto nei giorno scorsi nel nostro Parlamento. Tutta la questione di quali siano i possibili esiti del cosiddetto MES risiede nella sua vera natura di trattato internazionale e non di accordo o contratto di origine commerciale.
C’è di più, ed ecco il particolare disvelante il vero. La verità risiede nell’ultima formulazione dell’articolo 3 del regolamento, pubblicato ieri su queste pagine, ma che vale la pena di riproporre laddove si afferma che «l’obiettivo del Mes è di mobilitare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del Mes che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri». 

Ed ecco il punto: «Se necessario, per prepararsi internamente a poter svolgere adeguatamente e con tempestività i compiti attribuitigli dal presente trattato, il Mes può seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico, e analizzare le informazioni e i dati pertinenti». Che cos’è tutto ciò se non la riprova che nulla più avviene sulla fiducia? Non bastasse, come ha rivelato ieri Il Messaggero, all’articolato del trattato sarebbe pochi giorni fa sarebbe stato allegato un “working document” destinato a introdurre una metodologia comune per calcolare la sostenibilità dei debiti pubblici dei Paesi membri e la loro capacità di rimborsi: esattamente quell’automatismo che non si voleva, e dal quale fin da principio questo giornale aveva messo in guardia per i rischi che ciò comporta sul fronte dei mercati per i Paesi ad alto debito.
E dunque, il dettato delle norme che regolano il voto nel Consiglio europeo sono chiarissime: su temi di grande rilevanza, come quelli qui richiamati, il voto all’unanimità sarebbe obbligatorio. E sarebbe necessario un dibattito serrato e ragionevole. Qui scatta il diavolo della verità nel particolare.

È proprio nella governance di questo “ermafrodita” che chiamano Mes (che non è un vero e proprio trattato ma gli somiglia, che non è un fondo d’investimento ma gli somiglia, dove vige l’obbligo alla segretezza a cui dovrebbero attenersi anche i ministri che fanno parte del suo consiglio), proprio nell’avviare le procedure delicatissime del probabile-possibile intervento di ristrutturazione del debito che sfuma la fiducia, visto che nella sede del Mes prevale il voto a maggioranza anziché all’unanimità, dando alla Germania e alla Francia volta a volta alleate con varianti più o meno note, un potere di decisione o di veto spropositato commisurato al contributo. (Nemmeno a dire che ciò dovrebbe essere di stimolo alla diplomazia e al governo italiano affinché promuova altrettante alleanze variabili consone alle sue necessità).

Insomma, peggio di così non si poteva fare. E adesso bisognerà rimediare. Tanto più che in Italia sicuramente oggi nessuno vorrà un bis di ciò che accadde nel 1992, quando l’allora governo Amato prelevò dai risparmi degli italiani depositati nelle banche ciò che si presupponeva servisse a rimettere in moto la macchina economica italiana esposta ai venti della finanza globale. Un intervento, peraltro, che non ebbe alcun effetto strutturale positivo.
La storia può non essere maestra di vita, ma la storiografia lo è sempre.
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