Misure sull’energia/ Le regole Ue piegate agli interessi di alcuni

Sabato 1 Ottobre 2022 di Paolo Balduzzi

Le cronache di queste concitate giornate post-elettorali ci consegnano una realtà che, con un po’ di licenza e immaginazione, potremmo rappresentare così.

In un elegante ma austero appartamento di Piazza Colonna a Roma, che a breve sarà lasciato libero dall’attuale inquilino, sta per entrare una nuova residente. Sul tavolo, il suo predecessore lascerà due buste e una nota, scritta a mano. Nella prima busta ci sono tutte le bollette di luce e gas non ancora saldate; nella seconda busta, invece, alcune banconote: circa nove miliardi di euro. La nota, infine, riporta le seguenti parole: «I vicini di casa sono socievoli ma a volte un po’ troppo egoisti. Passi a trovarli appena possibile e porti i miei affettuosi saluti». 

Fuor di metafora, il governo Draghi lascia in eredità al subentrante governo, che verosimilmente sarà guidato da Giorgia Meloni, un conto energetico da pagare ancora molto elevato. Da galantuomo quale è il presidente del Consiglio, tuttavia, alla premier in pectore consegna anche una buona dote di risorse per far quadrare i conti. Non è moltissimo, specialmente se paragonato a quanto ha appena messo sul piatto la Germania (circa 200 miliardi di euro). Ma è segno che finora la gestione dei conti pubblici ha funzionato. Infatti, secondo la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Nadef), i deficit del 2022 e del 2023, seppure ancora consistenti, saranno inferiori a quanto previsto di circa nove miliardi annui. 

Un risparmio già da subito utilizzabile per il sostegno di famiglie e imprese in difficoltà. Soprattutto, però, la Nadef mostra un sentiero di consistente riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo: circa sei punti percentuali nel prossimo triennio. Tuttavia, affrontare certi problemi da soli è molto più impegnativo, meno efficiente e pure meno efficace che farlo in gruppo. Ecco quindi la nota, immaginata ovviamente e non davvero scritta, con cui Mario Draghi ricorda a Giorgia Meloni come in questi mesi i nostri partner europei, in particolare alcuni tra essi, stiano perdendo quel sentimento comunitario e solidaristico che tanto aveva caratterizzato l’ultimo biennio e che ha permesso a tutto il continente una fuoriuscita dalla pandemia che fosse la meno dolorosa.

In un’Europa che, giustamente, condanna le derive autoritarie al suo esterno ma anche al suo interno, come il caso ungherese ci insegna, sembra già mancare il ricordo dell’incredibile successo di un approccio che, solo pochi anni fa, ha permesso ai cittadini europei di guardare con speranza al proprio futuro quando ancora la fine della pandemia sembrava lontanissima. Next Generation Europe era ed è un piano di lungo periodo e larga visione; la sospensione del Patto di stabilità una scelta saggia; l’unione nelle sanzioni alla Russia un punto di forza. Eppure, tutto questo sembra ormai così lontano. 

Se già dunque manca la memoria a breve, poche speranze ci sono che certe cancellerie continentali ricordino le motivazioni per cui alcune nazioni pioniere diedero vita, negli anni ‘50 del secolo scorso, al progetto europeo. Nel 1951, sulle macerie della Seconda guerra mondiale, Francia, Germania e Italia cominciarono a porre le basi di una comunità tra Stati europei che condividesse la produzione e facilitasse la distribuzione di acciaio e carbone. Nel giro di pochi anni furono fondate la Ceca (Comunità europea per il carbone e l’acciaio), l’Euratom (Comunità europea per l’energia atomica) e naturalmente la Cee (Comunità economica europea), insieme a Belgio, Lussemburgo e Olanda. A 70 anni di distanza, proprio Olanda e Germania appaiono ancora i paesi più restii a realizzare davvero l’obiettivo di strategia energetiche comuni per tutti i paesi europei.

Leggere i nomi di certi Paesi, in questa lista, lascia un sapore ancora più amaro in bocca a chi, negli ultimi mesi, sta facendo di tutto per trovare una soluzione, se non unitaria, almeno largamente condivisa. Il caso tedesco, emblematico ma non certo isolato, ci insegna due cose. La prima è che i buoni rapporti tra nazioni e i vincoli di solidarietà internazionali si cementano con azioni e politiche coerenti; al contrario, ogni scelta alternativa ed egoistica non fa che gettare benzina sul fuoco dei populismi antieuropei. La seconda è che il divario tra i 200 miliardi tedeschi e i nove (o diciotto su due anni) italiani è immenso. Se mai qualcuno avesse il dubbio che ridurre il debito pubblico sia una scelta opportuna, pensi che il rapporto debito/Pil in Germania è pari al 70%, meno della metà di quello italiano. È proprio per questo che, nonostante la previsione ormai certificata di recessione per il prossimo anno, Berlino può permettersi l’ennesima sbandata nazionalistica. Un bilancio pubblico più solido rende più forte il nostro paese. E non perché questo ci serva a fare da soli: ma perché ci rende più forti nei confronti degli altri paesi e nelle nostre proposte. Certo, si potrebbe pensare, ben venga il sostegno all’economia domestica se una nazione se lo può permettere.

Il problema è che, in una economia integrata come quella europea, in un contesto produttivo e competitivo così stretto come quello tra gli Stati del continente, i fondi tedeschi per un tetto ai prezzi solo nazionale diventano un fenomenale (per loro) quanto letale (per gli altri) aiuto di Stato alle loro imprese. Non solo: le continue pressioni di Germania e Olanda sulla Bce per interventi al rialzo sui tassi alla lunga rischiano di minarne la credibilità dell’azione nonché l’efficacia. Non a caso ieri pomeriggio a Firenze il governatore Ignazio Visco ha criticato con insolita durezza, rasentando lo strappo, la politica monetaria della Bce che pare proiettata verso una stretta ancor più rigida di fronte a un’inflazione europea la cui natura non ha nulla da spartire con quella americana: di questo passo, ha avvertito, andremo dritti verso sicura recessione. 

Un intervento, quello di Visco, che segue di poche ore l’allarme lanciato da Giorgia Meloni e Mario Draghi sui pericoli di un’Europa che si va disunendo su questioni capitali. Probabilmente a causa di una crisi di dimensioni non prevedibili, riemerge un vizio atavico in Germania, abituata, forse anche per mancanza di forti leadership alternative, a piegare le regole di concorrenza europea alle proprie esigenze. Che si parli di banche, di automobili, di acciaio, non fa differenza. E l’ultima in ordine di tempo è una mossa che sa anche di beffa, soprattutto per il nostro Paese: proprio il cancelliere tedesco Olaf Scholz, dopo l’incontro con Enrico Letta a Berlino di dieci giorni fa, si era lasciato andare a dichiarazioni di tutt’altro tono sulla necessità di una politica energetica comune. La coerenza, appunto. Verrebbe da dire: non ascoltare quel che dicono, bensì osservare ciò che fanno. Ecco una lezione che il nuovo governo dovrebbe assimilare rapidamente.

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