La sfida della Bce/ Una nuova strategia contro l’inflazione

Martedì 4 Luglio 2023 di Francesco Grillo

Sulle decisioni sui tassi di interesse della Banca Centrale Europea, si dividono economisti, banchieri e governi.

Tuttavia, c’è una questione assai sottovalutata e che dovrebbe logicamente precedere tale polemica. Sono le banche centrali ancora in grado di controllare l’inflazione? La domanda è fondamentale perché se scoprissimo che ciò non è più vero, dovremmo riconoscere che stiamo utilizzando una medicina che ha perso efficacia nei confronti di un virus che ha imparato a difendersene. E le conseguenze sarebbero rilevanti perché gli effetti collaterali delle politiche monetarie pesano sulle tasche delle famiglie gravate da mutui; sui bilanci delle banche (alcune sono penalizzate dai tassi d’interesse più alti; altre ne sono avvantaggiate); sull’economia in generale.


Il grande dubbio sulle banche centrali è nei numeri che definiscono l’andamento dell’economia occidentale negli ultimi 15 anni. Subito dopo la grande crisi finanziaria, dal 2009 fino al 2015, la Banca Centrale americana (Fed) e quella europea (Bce) iniettarono nel sistema 5 mila miliardi, triplicando la dimensione dei propri bilanci. Un sistema inondato di soldi dovrebbe sperimentare un’inflazione galoppante: invece, se prima di questa colossale operazione, l’inflazione era attorno al 4%, essa era scesa sotto lo 0% quando il trattamento si concluse dopo sei anni. 
Oggi la situazione è opposta a quella vissuta dieci anni fa, ma il paradosso si ripete al contrario. Dal luglio dello scorso anno, la Bce ha aumentato sette volte i tassi di interesse, portandoli da zero al 4%. Ciò dovrebbe portare ad una riduzione dei prezzi e, invece, se si considera l’inflazione domestica (quella che cioè prescinde dai prezzi dell’energia e del cibo), essa è aumentata nello stesso periodo (dal 4 al 5,4%). 


Sono numeri dolorosi, perché un aumento del costo del denaro di quattro punti comporta un aumento dei mutui del 60%, mettendo in difficoltà famiglie che sono già tassate dall’inflazione. E che contraddicono una delle poche certezze che apprendiamo sui manuali di macroeconomia. La sensazione è infatti che negli ultimi tre decenni sia intervenuta una variabile esterna a cambiare le equazioni che legano moneta, crescita, inflazione. Quel fattore è la tecnologia che da una parte aumenta gli scambi tra sistemi prima chiusi; dall’altra, sta disintermediando le banche come unico soggetto che crea moneta. 


Ciò non può non essere rilevante per chi volesse cominciare a ragionare seriamente di futuro. Quale può essere il ruolo di una banca centrale tre secoli dopo la nascita della prima istituzione di questo genere (la Banca d’Inghilterra)? E come dovrebbe cambiare il mandato della Banca Centrale Europea, 25 anni dopo la sua fondazione? Possiamo provare ad articolare la risposta considerando i tre obiettivi che ad un banchiere centrale sono normalmente affidati: inflazione; stabilità finanziaria; crescita (i cosiddetti mandati “secondari”).


Sull’inflazione, è necessario che, innanzitutto, le banche centrali aggiornino quello che è un loro punto di forza: studiare; aggiornando gli strumenti di misurazione. Ciò significa sviluppare una maggiore capacità di valutazione dell’effetto dei tre fattori che determinano l’inflazione: il potenziale deflattivo della tecnologia e il grado di assorbimento di tali tecnologie in società diverse; la maggiore o minore integrazione delle catene globali attraverso le quali si produce valore; l’equilibrio tra domanda e offerta all’interno del sistema economico che il banchiere centrale governa. Tale analisi è fondamentale perché solo sull’ultima voce la banca centrale ha un’influenza diretta; mentre sugli altri due fattori può giocare un essenziale ruolo di coordinamento. 


Un’evoluzione di questo genere implica, tuttavia, anche l’abbandono del mitico target del 2%. Sia la Bce che la Fed dichiarano esplicitamente di voler tenere l’inflazione attorno a quel livello arbitrariamente fissato. In realtà, non è escluso che, ad esempio, in un contesto di forte progresso tecnologico, una società evoluta possa, persino, porsi l’obiettivo di mantenere l’inflazione in territorio negativo per un lungo periodo. 
In secondo luogo, la stabilità finanziaria. Che è paradossalmente – a differenza dell’inflazione – ancora più saldamente che in passato nelle mani delle banche centrali. È a Francoforte che si lavora per proteggere l’Europa da crisi che continuano – negli Stati Uniti e in Svizzera – a mietere vittime che sembravano troppo grandi per fallire. È stata la Bce di Draghi a salvare il nostro Paese dal fallimento e quella di Lagarde ad aver garantito per Stati che – durante la pandemia – hanno visto crescere di quindici punti il rapporto tra debito pubblico e Pil. E, tuttavia, le Banche centrali non possono non coordinarsi di più con chi – Commissione Europea, Banche centrali nazionali – ha gli strumenti per impedire che il salvataggio diventi “azzardo morale”: sopravvivenza di classi dirigenti e comportamenti non più adeguati.


Infine, sulla questione della crescita. Dell’occupazione. Dell’ambiente. Usare i tassi di interesse per queste politiche, aggrava la contraddizione dalla quale siamo partiti: useremmo un antibiotico ad amplissimo spettro, per colpire problemi molto specifici. E, tuttavia, poca crescita o crescita di scarsa qualità ambientale, diventa instabilità finanziaria e inflazione nel periodo medio. La banca centrale del futuro avrà strumenti e competenze per proporre strategie. Una teoria di come i sistemi economici funzionano nel ventunesimo secolo, può essere il contributo decisivo delle istituzioni che hanno fatto crescere generazioni di grandi economisti. A patto che si abbia il coraggio di superare modelli matematici che hanno perso senso. 


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Ultimo aggiornamento: 07:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA