Scuola, lavoro e pensioni: così il Paese rischia il futuro, tra 10 anni 125 mila cattedre in meno

La popolazione in età attiva è destinata a ridursi di quasi 8 milioni nel 2050​

Sabato 13 Maggio 2023 di Luca Cifoni
Scuola, lavoro e pensioni: così il Paese rischia il futuro, tra 10 anni 125 mila cattedre in meno

Non è solo questione di soldi. Una società come l’Italia, in cui i giovani sono una minoranza, è destinata inevitabilmente a innovare e crescere poco, a conservare l’esistente piuttosto che immaginare il futuro. Ma anche i numeri da soli, quelli che misurano le prospettive del sistema produttivo e la sostenibilità dello Stato sociale, danno l’idea di cosa succederà nel nostro Paese nei prossimi decenni, in assenza di una decisa inversione di tendenza sulla natalità.

O di un più rilevante contributo dell’immigrazione, che comunque dovrà essere governata.

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LE CATTEDRE

Alcune cifre le aveva date giovedì il ministro Valditara e riguardano la scuola: in dieci anni il numero degli studenti è destinato a ridursi di circa 1,4 milioni, da 7,4 milioni a poco più di 6. Un’emorragia che coinvolgerà soprattutto le superiori, con circa 500 mila ragazzi in meno, poi le elementari con 400 mila e le medie con quasi 300 mila. Anche nella scuola materna ci sarà una contrazione, calcolata in ben 156 mila unità. Di conseguenza, il numero delle cattedre si ridurrà dalle attuali 684 mila a circa 558 mila: dunque saranno 126 mila in meno. Una riduzione che non necessariamente si trasformerà in perdita secca di posti di lavoro, visto che lo stesso ministro ha confermato l’intenzione di utilizzare almeno una parte di queste risorse umane in potenziale eccesso per «combattere la dispersione scolastica e personalizzare l’educazione». Ma che comunque avrà un suo impatto. Del resto la tendenza è già evidente, come conferma la norma inserita nella legge di Bilancio che puntava a “razionalizzare” intanto il numero dei presidi.

Le conseguenze della denatalità dei decenni passati sono già più che evidenti anche nel mondo del lavoro. Pur in presenza di una disoccupazione che permane, le imprese fanno fatica a trovare diverso profili professionali, non necessariamente super-qualificati. Il perché si può capire. Se nel 2011 la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni arrivava a 39,3 milioni, a inizio 2023 eravamo a 37,3, quindi due milioni in meno. E la numerosità di questa fascia di età (che convenzionalmente corrisponde a quella delle persone lavorativamente attive) continuerà a ridursi inesorabilmente: nel 2030 secondo le previsioni dell’Istat saranno 35,6 milioni, per poi precipitare nel 2050 a 29,8 milioni. Il crollo in 40 anni sarebbe di quasi dieci milioni di lavoratori, tra quello già “consumato” e quello stimato di quasi otto. Si tratta di una componente decisiva del più generale calo della popolazione previsto per i prossimi decenni. Anzi, in realtà la contrazione degli attivi è numericamente superiore a quella complessiva dei residenti, che scenderebbero sempre nel 2050 a 54,2 milioni dagli attuali 58,8. Questo perché si ridurrà massicciamente la parte giovane e adulta della popolazione, mentre aumenterà quella anziana e molto anziana. Il che ci porta ad un’altra criticità che si profila all’orizzonte, quella relativa al sistema pensionistico. Le simulazioni effettuate dalla Ragioneria generale dello Stato descrivono l’andamento dell’incidenza della spesa previdenziale sul Pil, che toccherebbe un picco vicino al 17 per cento nel 2044 per poi ridursi. In sintesi il messaggio dei tecnici del Mef è abbastanza semplice: in uno scenario così precario il fardello delle pensioni caricato sulle spalle delle generazioni giovani potrà essere sopportabile solo se ci sarà un forte aumento della partecipazione al lavoro, rispetto alla situazione attuale caratterizzata da occupazione spesso discontinua. Condizione questa necessaria anche per garantire che - a loro volta - i lavoratori di domani possano percepire un assegno pensionistico decente, una volta terminata la carriera.

I TERRITORI

Un eventuale cambiamento di rotta dovrebbe manifestarsi già dai prossimi anni, prima che la situazione si avviti del tutto in un circolo vizioso: i bambini e le bambine che non nascono oggi (in larga parte a causa del crollo demografico degli anni 70-80-90 e del conseguente prosciugamento del bacino dei genitori potenziali) ridurranno ulteriormente il numero di coloro che potranno essere madri e padri. È il caso di ricordare che le tendenze sono diversificate sul territorio nazionale. Se il numero medio di figli per donna è pari nella media a 1,24, Bolzano svetta a 1,65 e altre cinque Province (Gorizia, Crotone, Ragusa, Palermo e Catania) sono al di sopra di 1,4. La parte opposta di questa particolare classifica illustra una situazione ormai disastrosa in Sardegna: delle cinque Province dell’isola ben tre sono al di sotto di 1, mentre Sassari e Cagliari sono appena al si sopra. Ma valori di fecondità davvero bassi si ritrovano anche in altre aree: Biella, Verbano-Cusio-Ossola e Rovigo al Nord, Terni, Massa-Carrara, Lucca, Viterbo e Prato al Centro, Potenza, Matera e Campobasso al Sud. Le soluzioni messe in campo ad esempio in Alto Adige possono essere una strada da seguire altrove.

Ultimo aggiornamento: 09:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA