«Ero depresso appena sveglio la mattina / suonavo il punk contro il sistema / la mia esistenza in quegli anni era una pena», cantava nel 2019 in una canzone del suo album Figli di nessuno. Fortuna che arrivò la musica a tendergli la mano, salvando Fabrizio Moro da un disagio duplice: quello della periferia romana a San Basilio e quello di un adolescente che - è lui stesso a parlarne senza imbarazzo - cercava attraverso gli stupefacenti un distacco dalla realtà.
In che senso?
«Quando hai 15, 16, 17 anni, il contatto fisico con gli altri è fondamentale. Io e i miei amici stavamo sempre appiccicati l'uno all'altro. I ragazzini di oggi, invece, stanno ormai metabolizzando il fatto che avere un contatto stretto con un'altra persona è rischioso. La mia paura è che possano sviluppare problemi seri di socializzazione. La pandemia, comunque, per come la vedo io, ha aggravato una situazione già di per sé allarmante».
A cosa si riferisce?
«Le relazioni sociali, rispetto a qualche anno fa, sono cambiate completamente. E la colpa è dei social, che hanno segnato le nuove generazioni negativamente. Noi stavamo sempre per strada, loro si chiudono dentro casa e si parlano tramite i cellulari. Passano la maggior parte delle giornate incollati allo schermo del cellulare o di fronte ai videogiochi. Così è facile sviluppare ansia, senso di solitudine, depressione».
Sentimenti che poi rischiano di essere sfogati in modi sbagliati: risse, alcol, droghe. Crede che questo periodo abbia portato ad un'esagerazione negli sballi?
«In una certa misura sì: chi prima si faceva tre spinelli e due birre, magari ora di spinelli se ne fa dieci e di birre cinque. Ma non credo nel nesso tra disagio interiore e droghe. Io feci uso di stupefacenti perché cercavo tramite le droghe un distacco dalla realtà. Molti dei miei coetanei per l'assenza di prospettive: è la cosa peggiore, la più pericolosa. E in questo la pandemia può fare, se non ha già fatto, danni seri».
Quando è iniziata la sua rinascita?
«Dopo vari episodi. Iniziai a stare male, avevo paura di morire, di fare la fine di alcuni miei amici. Mi salvai grazie alla mia coscienza».
Cosa le diede la spinta?
Il desiderio di realizzarmi, attraverso la mia passione per la musica. E di diventare genitore. Non mi accontentavo di rimanere lì, relegato in un contesto di periferia, disagiato e malmesso anche dal punto di vista del fisico».
Le capita mai di parlarne con ragazzi più giovani in situazioni difficili?
«Sì. Gli dico di starci attenti, di non buttarsi via, di non autodistruggersi».
Da padre in questi mesi come si è comportato con i suoi figli?
«Ho cercato di spronarli ad uscire, rispettando tutte le precauzioni del caso. Non ce la facevo più a vedere Libero tutto il giorno davanti ai videogiochi: pur non essendo un amante dello sport ho comprato una bici, lo porto a spasso con me. Ad Anita ho detto di non avere paura di andare alle feste delle amichette».
La lezione più importante che ha imparato dall'emergenza?
«Ho capito che questo è un momento storico in cui bisogna reinventarsi. Non lo dico per fare il moralista. Sì, lo Stato potrebbe fare di più per aiutare le persone, giovani compresi, ma è sbagliato piangersi addosso. Penso ad uno dei miei amici storici, con moglie e due figlie, che lavorava come vetturiere in un importante albergo a Roma e si è ritrovato senza lavoro a causa delle chiusure: prima si è messo a fare le pulizie, ora lavora come elettricista. Di fronte alle difficoltà bisogna avere il coraggio di rimboccarsi le maniche».