Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Venezia 78, giorno 2. La genesi di Sorrentino
e l'America in tilt di Paul Schrader

Venerdì 3 Settembre 2021

Parlare di sé, della propria vita in modo diretto, raccontarla a partire da una grande tragedia capitata in età adolescenziale, è tutt’altro che semplice. Paolo Sorrentino, nel primo dei cinque film italiani in Concorso, passato ieri alla Mostra, lo affronta alla sua maniera, soffermandosi sui tratti fondamentali della sua esperienza e quindi sulla nascita del suo cinema. “È stata la mano di Dio” chiarisce subito che il riferimento è al grande Maradona (e al gol più straordinariamente “falso” della sua carriera), ma è anche la ragione per cui da quella tragedia Sorrentino si salvò, preferendo andare allo stadio e non in montagna con i genitori, che morirono nella notte per il famigerato monossido di carbonio. Da lì poi è nata la passione del cinema e la voglia di diventare regista. Va da sé che anche in questo caso il regista napoletano non rinuncia ai suoi vezzi più ricorrenti, ma l’esibizionismo tecnico è stavolta limitato, le provocazioni narrative annullate, la messa in scena sincera e il dolore, che si respira in un’adolescenza solitaria e problematica, autentico. Certo è sempre sopra le righe il grottesco che trasfigura il reale, trasformandolo in quello scenario immaginario che discende notoriamente da Fellini (come le ossessioni risapute, a cominciare dallo sguardo sulle donne), qui citato al pari di Zeffirelli e soprattutto Antonio Capuano; ma nella prima parte, in quella giocosa rappresentazione, cordialmente volgare della quotidianità partenopea, ci si diverte volentieri e la caratterizzazione dei personaggi vive di quella trivialità allegra che fa folklore e luogo comune, non solo per la passione smodata per il calcio. Poi, dopo la tragedia (quindi a metà percorso), il film disperde la sua forza, soffermandosi sulla genesi di un regista, che affronta la vita tra mille incertezze, non trovando la medesima sintesi. Voto: 6,5.

Che Paul Schrader sia un grande sceneggiatore e anche un grande regista lo sappiamo da decenni. Con “The card counter”, anch’esso in Concorso, il regista statunitense affronta l’ennesima variazione sul tema della colpa e della redenzione, qui agganciata alle famose violenze subite dai prigionieri iracheni ad Abu Ghraib da parte dei soldati americani, con William Tell (Oscar Isaac), un ex militare, oggi instancabile giocatore d’azzardo, che con La Linda (che gravita nel mondo della finanza) gira l’America attraverso i casinò. Quando incontra il giovane Cirk (Tye Sheridan), che è alla caccia del colpevole del suicidio del padre, anche loro presenti nella prigione famigerata, gli propone un patto, ma le cose non andranno in modo lineare. Schrader compatta i vari rami del racconto, le connessioni tra gli azzardi del tavolo, della vita, della forza, con un percorso sinuoso e tellurico, nella distorsione dei ricordi (l’incubo ricorrente della prigione) e nella profondità del riscatto, portando la catarsi a compiersi nel modo più sacrificale e più necessario. Ne esce il ritratto di una Nazione incapace di dominare le proprie pulsioni, andando facilmente in tilt come un flipper troppo stimolato. Lunghi carrelli e piani sequenza danno un’ambigua fluidità, nonostante i continui strappi nervosi di personaggi che si scrutano, mantenendo spesso un proprio mistero, a cominciare dal protagonista, come nella scena del motel, di rara tensione. Siamo dalle parti di un possibile Leone, che come spesso per Schrader non arriverà. Voto: 8.

Non altrettanto, in un Concorso finora decisamente gratificante, si può dire del ritorno alla regia di Jane Campion con “The power of dog”, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage. Qui siamo nel Montana di primo Novecento, dove il rozzo allevatore Phil Burbank (il sempre bravo Benedict Cumberbatch) semina il terrore nella vallata. Quando il fratello sposa un’alcolizzata (Kirsten Dust), che ha un figlio effeminato, la situazione precipita. Bucoliche atmosfere, paesaggi sconfinati, segreti inquietanti, ritmo sonnolento e mood dolente: la Campion cerca il rumore profondo e nascosto dei corpi, ma sono i silenzi ad essere estenuanti. Voto: 5,5.

 

 

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