Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Gian Piero Brunetta: il cinema, la Mostra
Barbera, Garrone, ieri e oggi, sala e streaming

Giovedì 4 Aprile 2024

Parlare di cinema con Gian Piero Brunetta non è solo elencare un’infinità di film, è avventurarsi in quella storia affascinante, che dal lontano 1895, tra arte e spettacolo, continua ancora ad emozionarci, a dispetto di coloro, che fin da allora ne hanno decretato a ripetizione il declino, quando non la morte. Ora Brunetta non ha certamente anche lui 130 anni, ma avendo da poco scavalcato l’ottantina, un bel po’ di strada assieme lui e il cinema l’hanno fatta. D’altronde questa è una passione che ti prende quasi sempre appena adolescente e non ti lascia più. E quindi partiamo da qui, meglio anche prima.

Infanzia, vocazione e prime esperienze di Gian Piero Brunetta.

«Sono nato accidentalmente a Cesena, ma già dal ’45 a fine guerra eravamo al Lido, dove al massimo giravano 20 auto, perché papà era veneziano, dopo essere passati brevemente anche per Cuneo, perché mamma era piemontese. Al Lido un mio amico era figlio dei gestori del cinema Astra, così ho cominciato ad andare a vedere qualche film. Poi era già tempo di retrospettive per gli studenti: western, cinema francese anni ’30 e poi erano i primi anni della Mostra, e noi giovani cercavamo di intrufolarci, magari scavalcando per entrare in Arena. Non sapevo ancora cosa fare da grande. Ero affascinato dall’arte contemporanea, ma avevo anche altre idee per la testa. Ma un giorno incontrai Carlo Battisti, l’attore di “Umberto D.” di De Sica. Fu probabilmente la scintilla. Laureatomi a Padova nel 1966 con una tesi sulla nascita dell’idea del Neorealismo, è iniziata la mia carriera di critico, studioso e storico del cinema. E ancora adesso continuo a guardare, studiare eccetera».

Ha ancora voglia di stupirsi?

«Ma certo. Il piacere della sala è immutato, specie ora dopo il biennio drammatico del Covid. È stato bello tornare. Il digitale poi ha creato mondi impensabili, sguardi incredibili: “Avatar”, “Dune”, “Oppenheimer” mi danno il senso dell’oggi; poi magari mi lascio entusiasmare da questa ondata di cinema femminile, anche in Italia: Alice Rohrwacher, Bispuri, Samani, Golino eccetera, fino alle ultime entrate di Buy e Cortellesi».

Però oggi il cinema arriva a casa. Non è una perdita, rispetto al passato?

«Si perde il godimento della ricerca che avevano le generazioni passate. La ricerca di archivio, la scoperta di film che nessuno aveva visto. E si perde un po’ anche il rito della sala. Però si possono vedere una infinità di cose, non è un aspetto da sottovalutare. Ogni epoca ha i suoi pregi e i suoi difetti».

Lei ha scritto un’opera monumentale sul Cinema italiano (ora di nuovo in librearia, in una nuova edizione), mai più tornato ai fasti dei decenni d’oro. Come ce la stiamo passando oggi?

«Meglio di quanto sembri. Forse, come disse un paio di Mostre fa Alberto Barbera, si produce troppo e non sempre di qualità. Anche quando si fa più internazionale, il nostro cinema si è sempre localizzato. Anche oggi. Non è una debolezza, è più una continuità. Siamo legati al territorio, ma ci sono giovani registi e registe che sanno raccontare. Ecco dovessi dire il problema del cinema italiano rispetto ad altre cinematografie, specie quella francese, è che noi non siamo capaci di uccidere i padri, come ha fatto la Nouvelle Vague. Siano sempre lì, col passato che torna. Anche il grande successo di Paola Cortellesi è dovuto a questo: tutto il film ci riporta in una dimensione a noi familiare, al grande cinema italiano che abbiamo amato».

Il pericolo è il cliché. D’altronde è anche quello che all’estero, specie in America, ci riconoscono di più. Prendiamo gli Oscar: Benigni, poi Sorrentino, adesso Garrone. Andiamo bene quando siamo quelli che gli altri pensano.

«”Io capitano” è però un film dal respiro internazionale. E a me piace. Però gli Oscar hanno ragioni e motivazioni particolari. Secondo me Garrone ha sbagliato a intervenire sulla questione, lamentandosi. È un gioco. Sappiamo da sempre anche come funziona. “La zona d’interesse” è altrettanto un grande film. È come dire oggi chi è il giovane tennista più bravo: Sinner o Alcaraz? Sono fortissimi entrambi. Si perde, si vince, ma il valore resta; e “Io capitano” vale. Ed essere in quella cinquina va considerato un successo».

Autori, registi: il cinema italiano a volte si scorda di qualcuno, a volte esalta chi non se lo merita troppo.

«Ma più che alla “politica degli autori” cara ai francesi, mi piace guardare la complessità delle opere, dei generi. Però è vero che per strada ci siamo dimenticati di questo o quel regista. Vuole sapere? In Italia non esiste una monografia importante su Vittorio De Sica, mentre ce ne sono un centinaio su Pasolini o Fellini. Chi troppo, chi niente. Ad esempio mi piacerebbe che Pupi Avati venisse valorizzato, studiato di più; che Piavoli, grande creatore di mondi, fosse finalmente scoperto dal grande pubblico; e, andando indietro nel tempo, che Zurlini avesse finalmente la dimensione artistica che gli spetta. E potrei continuare».

Anche il critico andrebbe rivalutato, rivalorizzato.

«Questo mi sa che sia più difficile. Già dagli anni ’80, con l’avvento delle tv ai vari festival, la funzione critica del quotidiano cominciava a tramontare, orientando il pubblico. Oggi con i social è tutto diventato caos: ogni parere vale l’altro. Persa aura e autorevolezza, la critica è anche sparita quasi del tutto dai quotidiani. Succede col cinema, ma con le tv che fanno programmi a ogni ora, ormai anche con la gastronomia. Tutti si sentono autorizzati a dare pareri».

Lei ha dedicato un robusto ed esaustivo volume anche alla Storia della Mostra del Cinema di Venezia, che nell’ultimo periodo è tornata a occupare il posto di prestigio internazionale che le spetta.

«Barbera ha fatto bene. Ha spinto la Mostra verso nuovi Orizzonti, che è la natura stessa di Venezia. Ha aperto ai film prodotti dalle piattaforme, cosa che Cannes, sbagliando, si è negata. La vittoria di “ROMA” al Lido è stata fondamentale, in questo. Ha poi ospitato la prima Realtà Virtuale, che cambia il rapporto tra immagine e spettatore. Sempre attento insomma a non addormentarsi sugli allori».

Ma ora è tempo di cambiamenti. A Venezia c’è aria nuova.

«La Biennale ha una forza interna notevole, che le garantisce il modo per superare ogni ostacolo che i cambiamenti possono creare. Sta navigando da tempo col vento in poppa e gli ultimi presidenti hanno lasciato un ricordo significativo, con un lavoro importante. Ora è presto per dire qualsiasi cosa. Quest’anno poi è l’ultimo, sulla carta, di Barbera. Io stimo molto Alberto, penso che garantirebbe sicuramente una tenuta alta per un altro mandato di 4 anni. Vedremo cosa si deciderà».

Mi pare una dichiarazione di voto precisa. Ma i festival hanno ancora importanza nello scacchiere cinematografico?

«Sì, hanno ancora senso. Ci permettono sempre di fare il punto, di vedere insieme tante proposte. Riformano il rito della proiezione collettiva. Forse sono troppi. Ma è una fortuna che continuino a esistere».

Che futuro vede?

«Sarei positivo. Vedo che al cinema la gente corre a rivedere riedizioni di film classici. Questo conforta. Insomma, non disperiamo. Come dice la Cortellesi: c’è ancora domani».

 

 

Ultimo aggiornamento: 05-04-2024 22:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA