Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Più pallida che Chiara: Nicchiarelli flop
Ansia Bruni Tedeschi, Monica commuove

Giovedì 8 Dicembre 2022

Susanna Nicchiarelli continua il suo scandaglio sulle figure femminili, indietreggiando pericolosamente nella storia e peggiorando vistosamente il risultato finale. Da Nico, che apriva squarci di cinema libero ed emozionale, soprattutto nella seconda parte, è passata a Eleanor Marx, dove è mancata soprattutto l’esplorazione del “corpo politico” e ora è arrivata nel XIII secolo con Santa Chiara, che delle tre probabilmente è la più complicata da rappresentare, specialmente per chi ha un’anima pop, sentendo sempre il bisogno di attualizzarne la storicità. Viviamo nel film l’abbandono della famiglia, l’aggregazione a Francesco, i primi contrasti e i prodomi dell’istituzione dell’Ordine della Clarisse. In realtà Nicchiarelli è soprattutto interessata a fare di Chiara un nuovo esempio di proto-femminismo, accentuandone la forma e la sostanza, tanto da mettere in cattiva luce lo stesso Francesco, in quanto maschio, colpevole di essere venuto a patti con la Chiesa, con qualche passaggio di evidente forzatura, piuttosto stonata. Ma il vero problema è che il film non ha mai una tensione storica (tutto è debolmente riassunto: si veda la scena finale col Papa-Lo Cascio, davvero sconcertante nella sua banalità); ma soprattutto manca di scintilla mistica e spirituale: le monache si limitano spesso a cantare (siamo quasi in un musical, ma si pensi di cosa fu capace recentemente Bruno Dumont con “Jeanne”), a cucinare, a danzare, a coltivare gli orti, spesso leggiadre. C’è insomma il desiderio di strutturare ambiziosamente una figura complessa e affascinante con la necessità di raccontarla attraverso dinamiche corrive, che si prefiggano soltanto il bisogno di sorprendere lo spettatore e magari lusingarlo con una messa in scena naturalistica e apparentemente libera e invero deficitaria, più sfacciatamente hippy che tormento dell’anima e della carne. Pauperistico nella forma via via sempre più evanescente, “Chiara”, la cui presenza in Concorso a Venezia è sembrata un azzardo, sembra avvicinarsi di più allo Zeffirelli di “Fratello sole, sorella luna”, già modesto nella sua fragilità, rispetto alle riletture di “Francesco” di Liliana Cavani, autrice tra l’altro tempo fa di un notevole documentario proprio sulle clarisse, tacendo ovviamente qualsiasi azzardato riferimento a Rossellini. Se ne esce insomma senza aver capito molto di più di Chiara, mentre la Storia scorre fuori dallo schermo e il cinema sembra intrappolato negli spazi aperti, vago anche nella sua urgenza “politica” e piuttosto inconcludente.  In "Chiara" alla fine è un po’ tutto tradito, in una debolezza formale e contenutistica: prova ne sia la presenza, nel finale, della canzone “Le cose più rare” di Cosmo, che non si capisce cosa c’entri. La sensazione è che Nicchiarelli alzando l’ambizione abbia dimenticato il paracadute. Voto: 4.

È NATA UNA STELLA - Ci sono elementi esterni che spesso conferiscono, nell’imminente uscita in sala, un’attenzione mediatica a un film, che esula, spesso con caratterizzazioni di natura pruriginosa o questioni moralmente spiacevoli, dal valore stesso dell’opera. È il caso della nuova regia di Valeria Bruni Tedeschi, passata all’ultimo festival di Cannes, e preceduta di pochi giorni dall’ennesima notizia su presunte violenze sessuali, sbandierate a tutta prima pagina da un importante giornale francese come “Libération”, stavolta addebitate a Sofiane Bennacier, che della regista è compagno, oltre che attore nel film. La regista è intervenuta con un’accorata difesa anche alla presentazione italiana del film, sensibilmente disturbata dal clamore della notizia. Detto questo diciamo del film, che è uno tra i migliori della regista. Purtroppo si parte male con una delle inopportune scelte che la distribuzione italiana ogni tanto fa e cioè titolare internazionalmente in inglese (ma perché?) un’opera originalmente in francese, titolo inglese peraltro già usato per un film di Fausto Brizzi del 2016. “Forever young” quindi non è una felice mossa, che tradisce anche l’originale “Les amandiers”, che altro non è che la scuola di recitazione francese a Nanterre, periferia di Parigi, guidata da Patrice Chereau (Louis Garrel), qui riproposta nella frenetica attività della seconda metà degli anni ’80. Tra i ragazzi che la frequentano c’è soprattutto Stella (Nadia Tereszkiewicz, molto efficace), specchio della stessa regista e delle sue esperienze in quella scuola. Vi si intrecciano la passione per il teatro, il desiderio di catturare la vita, il rapporto con gli altri, il mettersi alla prova, in un’atmosfera di perenne confusione, speranza, illusione, incontenibile forza e debolezza. Valeria Bruni Tedeschi firma la vibrante, quasi caotica, spesso isterica volontà di una generazione di dominare l’euforia dei corpi, tra la realtà della strada e la rappresentazione del teatro. Le convulse dinamiche dei rapporti che si instaurano tra gli studenti, il ribaltamento delle prospettive in uno sguardo costantemente ansioso sono decisamente forme attrattive del film, che pian piano però disperde questa irruenza incontrollata (in realtà tutti propongono una “riproduzione” della recitazione della stessa Bruni Tedeschi), dove la coralità finisce col sgranarsi in troppi segmenti. Il desiderio, poco controllato, di immergersi nei lati oscuri di quel periodo, con richiami mortali come droga, aids, personalità autodistruttive, crea quindi uno scompenso che toglie spontaneità.  Valeria Bruni Tedeschi così sacrifica nella seconda parte l’immediatezza di una improvvisazione corale costante, preferendo inoltrarsi nei difficili percorsi dei singoli, diventando prevedibile e anche poco originale. Voto: 6.

LA TRAGEDIA DI UNA MADRE - È una storia tragica quella che racconta “Saint Omer” della francese Alice Diop, Leone d’oro opera prima all’ultima Mostra di Venezia. La giovane scrittrice Rama di origine senegalese si reca a Saint Omer per assistere al processo a Laurence Coly, rea di aver annegato la propria bambina di pochi mesi. La lunga fase processuale porta a comprendere come la madre sia stata ulteriormente negligente, non registrando nemmeno la nascita della bambina. Alice Diop inchioda la storia, da lei scoperta seguendo esattamente un processo simile, in una lunga, iniziale sequenza di inquadrature fisse in controcampo tra l’accusata e giudici, ma nella seconda parte, quando si intersecano le vicende delle due ragazze e si esce dal tribunale, il film crea un’inquietudine costante che cattura. Voto: 6,5.

RITORNO A CASA - In Concorso a Venezia, “Monica” è il terzo lungometraggio di Andrea Pallaoro, trentino di nascita ma da tempo statunitense di adozione, ed è la storia di una transgender che torna a casa per aiutare il fratello ad accudire la mamma anziana malata, senza che la genitrice sappia che in realtà è il figlio di un tempo. Descritto in modo lacerante e quasi silenzioso, in inquadrature ristrette, che sembrano consentire maggiore intimità, il film poggia sulla notevole prova di Trace Lysette, spesso inquadrata in primo piano, a camera fissa, in una staticità rigorosa che esalta la difficoltà di ogni rapporto. Assai toccante l’avvicinamento alla madre. Voto: 7.

 

Ultimo aggiornamento: 23:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA