Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Per tutto l'amore di Bond: la nuova era di 007
Per tutto l'amore del metallo: Titane perplime

Venerdì 1 Ottobre 2021

È innegabile che il Bond di Daniel Craig rappresenti ormai da cinque puntate un’attualizzazione che ha contaminato il personaggio iniziale in qualcosa di più complesso anche a livello esistenziale, almeno come non era mai avvenuto, nemmeno ai tempi di “Al servizio segreto di sua Maestà”, qui echeggiato con l’indimenticabile canzone di Louis Armstrong, sui titoli di coda. I tempi cambiano e d’altronde il “tempo” è sempre stato oggetto privilegiato di ogni scorribanda di 007: non a caso qui si inizia da un “Abbiamo tutto il tempo del mondo”, come dice Bond a Madeleine, forse perché in realtà non c’è mai troppo. “No time to die” in questo sa di essere il capolinea di un segmento molto particolare, non solo perché è annunciato il ritiro dalla scena di Craig e anche se adesso alla regia non c’è più Sam Mendes (come negli ultimi due episodi), ma Cary Joji Fukunaga, celebre soprattutto per la serie “True detective”, la linea è tracciata. D’altronde lo smantellamento è già iniziato, essendo adesso Bond ritirato in Giamaica a vita più sedentaria, da pensionato. Ma il cinema è sempre in agguato. Così ecco che l’amico Felix Leiter lo va a “disturbare”, perché il mondo è di nuovo in pericolo e l’umanità potrebbe estinta da un potente veleno, l’ennesima profezia di un cinema che certo guarda sempre al futuro ormai in modo distopico o catastrofico, ma insomma a volte ci azzecca (il film è rimasto in parcheggio a lungo proprio per la pandemia). Al venticinquesimo capitolo di questa inesauribile avventura, conosciamo all’inizio in un lungo flashback la storia infelice di Madeleine (Léa Seydoux), già incontrata in “Spectre”, un prologo dove inganni, tradimenti, vendette si materializzano in un caleidoscopico, forsennato intreccio. Così quando dopo quasi mezzora irrompe la voce sussurrata di Billie Eilish, in una canzone bondiana mai così dolorosamente intima (e diciamo anche soporifera), è già chiaro che la chiave malinconica sarà generosamente aggregata alle consuete scene d’azione (ma più di quella materana vale quella nel bosco nebbioso). Due ore e mezza sono indubbiamente necessarie per fare i conti con il cattivo di turno (Rami Malek, dal nomen omen puntuale: Lyutsifer), uno scienziato russo corrotto, un Blofeld in ricovero psichiatrico (Christoph Waltz), l’enigmatico Logan Ash (Billy Magnussen), oltre ai consueti M (Ralph Fiennes) e Q (Ben Whishaw). E poi, com’è ovvio oggi, le donne ormai virago e pistolere come e più dei maschi, si prendono la scena: oltre a Léa/Madeleine, ecco Ana de Armas (episodio cubano), ma soprattutto Lashana Lynch, la nuova 007 (dopotutto è solo un numero) che diventa lo specchio intrigante e ingombrante del Bond “pensionato”. Così tra un bacio e un massacro, tra un dubbio atroce e una agnizione, siamo a un episodio stavolta sì fondamentale, dove nel mezzo di una incipiente crisi internazionale, la saga lusinga il mélo più intenso, tra lacrime, romanticismo e condanna, con una doppia rivelazione che non lascerà nulla come prima. Se “Skyfall” era la rifondazione del Mito iniziata con “Casinò Royale”, “No time to die” apre alla genesi di una nuova epoca. Voto: 6,5.

PALMA, CARNE E METALLO - Una bambina infastidisce il papà che sta guidando. L’incidente stradale provoca gravi ferite alla ragazza, sottoposta a un intervento con titanio, che le viene impiantato nella testa. Anni dopo inspiegabili delitti la vedono protagonista, mentre per sfuggire alla cattura si spaccia per un figlio di un pompiere scomparso anni prima. A quasi trent’anni di distanza (Jane Campion – “Lezioni di piano” – 1993), la Palma d’oro di Cannes torna in mano femminili. Nell’anno del festival francese più francese di sempre, nel pieno del sacrosanto afflato del #metoo, davanti a un film che si accosta a un’estetica così scopertamente “à la page”, non poteva che vincere (immeritatamente) una regista francese, che affronta temi oggi più che mai urgenti, dalle mutazioni di genere all’esplorazione di attrazioni eccentriche. Julia Ducournau ha 37 anni e un film alle spalle (“Raw – Una cruda verità”) che ha fatto discreto rumore e acceso un significativo interesse: sa di giocare col fuoco e non si tira indietro. Dirige con “Titane” un film abbondantemente furibondo e chiassoso, violento e scioccante. Senza dubbio è coerente, perché già nella sua opera d’esordio si trovavano elementi espressi in modo appunto crudo, con un desiderio irrefrenabile del corpo altrui, tra sorellanze e vessazioni, in un racconto di formazione che non disdegnava derive orrorifiche, cercando di ritagliarsi un percorso autonomo e già autoriale. Qui viene tutto moltiplicato, soggiogato dal body-horror e interessato a stupire con le immagini, immerse in una caleidoscopica, vertiginosa contaminazione, più che con una tensione narrativa, che presto si perde, che entri veramente nel cuore e nella carne di una nuova genesi. Nel riferirsi a grandi confronti, da Cronenberg a Tsukamoto, da “Crash” a “Tetsuo”, e molto altro, la Ducournau perde di vista i riferimenti tematici, dal sesso all’identità, dalla gravidanza di lamiere al mélo più dissacrante, rendendoli innocuamente mero stupore visivo, fino al sarcasmo più spinto (dalla Caselli che canta “Nessuno mi può giudicare” durante il massacro, al massaggio cardiaco al ritmo della macarena). Bravissima Agathe Rouselle e, ça va sans dire, Vincent Lindon. Voto: 5,5.

LE DONNE E LA GUERRA - “Quo vadis, Aida?” della bosniaca Jasmila Žbanić ci porta dentro una delle pagine più tragiche della recente storia: il genocidio di Srebenica, luogo diventato simbolo dell’efferata guerra che ha dilaniato l’ex Jugoslavia. Aida è l’interprete che lavora con le truppe dell’Onu in loco, nel momento in cui il generale Mladic (successivamente condannato all’ergastolo a L’Aia) irrompe in città e, nonostante sia protetta dalle forze olandesi dell’Onu, compie l’orribile massacro. Seguiamo Aida (una Jasna Đuričić efficace che potrebbe anche trovare qualche segnale positivo dalla giuria) quando tenta, invano come purtroppo è noto, di salvare il marito e i due figli, dalle fasi di entrata nel rifugio dell’Onu fino al (finto) trasporto della popolazione in un posto sicuro. La nota più interessante del film è la dimostrazione dell’impotenza delle Nazioni Unite e la loro responsabilità, vista la loro incapacità a creare ostacoli, se non blandamente diplomatici, con Mladic. Žbanić punta sull’effetto numeroso della massa per creare tensione ed emozione, pur nella vicenda privata, e dimostra come oggi sia difficile parlare di una guerra ancora troppo recente, tanto assurda quanto crudele, senza schierare in campo i buoni e i cattivissimi, dove forse la realtà è stata più complessa. Una guerra insensata vista al femminile davanti a un fatto storicamente chiarissimo, dove ogni dialettica tra bene e male cessa. Ma al netto di tale lettura, lo stile è piuttosto grezzo e frontale, anche nella marcata similitudine con le deportazioni naziste. Sono comunque film che spesso si definiscono, e lo sono, necessari. Voto: 6.

VOCI TRAVAGLIATE - Il biopic musicale va per la maggiore. Stavolta tocca ad Aretha Franklin, Regina del soul, voce e dote musicale straordinaria, vita travagliata, amica di Martin Luther King, figlia di un padre controllore e di un primo marito violento, madre precoce, abbagliata dall’alcol. “Respect” firmato dalla sudafricana Liesl Tommy, al suo esordio, è un racconto lineare, diligente, popolarmente confezionato, che prova per due ore e mezza a restituire la complessità di un’esistenza fragile e al tempo stesso forte, carismatica e al tempo stesso perduta. Funziona? Poco. C’è tanta roba: tante canzoni, tanti sentimenti, tanti flashback. E forse in definitiva c’è poca Aretha. Voto: 5.

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 10:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA