Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Oppenheimer, l'atomica e i tormenti
di chi la inventò: Nolan stavolta convince

Giovedì 24 Agosto 2023

Ci sono eventi che hanno cambiato il corso dell’umanità: la scoperta dell’America, la Rivoluzione Francese, lo sbarco sulla Luna, tanto per citarne alcuni. Il più tragico non è molto indietro nel tempo: è datato 6 agosto 1945. Hiroshima, Giappone: la prima bomba atomica sganciata su una città. La bomba atomica, almeno come presenza possibile, è diventata la minaccia totale, l’armageddon per tutti in un finale senza vinti, né vincitori. Ne è consapevole J. Robert Oppenheimer, che di quell’arma fu il padre (con tanto di copertina su “Time”), fisico talentuoso, che al momento del grande esperimento nel New Mexico e all’indomani dello sganciamento sul Giappone, è colto dal senso di colpa, da quell’ambiguità che attraversa a volte il confine impreciso tra bene e male, tra il successo della scienza e la brutalità militare.

Christopher Nolan forse dirige il suo film più riuscito, probabilmente il meno contorto e palesemente condizionato da architetture temporali e narrative, da warmhole e giochi di prestigio (non a caso “The prestige” resta uno dei suoi lavori migliori), da desiderio di incantare e pervicacia, spesso stucchevole, di infastidire. Forse mai come oggi Nolan è stato al servizio di una storia, della Storia, di un Personaggio (reale), dove il protagonista osannato per il suo genio, ma colpevole di schierarsi politicamente nell’area comunista, alla fine paga il debito a una Nazione, la cui ingratitudine è sempre stata accompagnata da campagne denigratorie, censure pesanti, ostracismi violenti (si pensi al maccartismo, qui messo in evidenza; al codice Hays; a un puritanesimo tornato oggi prepotentemente a farsi vivo) e sulla quale Nolan esprime il suo giudizio morale, trattenendolo invece sullo scienziato, uomo costantemente tormentato, non privo di equivocità, ma condannato presto a essere spettatore della propria condanna decisa a tavolino e nata da ripicche, invidie, vendette, nelle quali precipitano i vertici militari, politici (si veda il breve ritratto di Truman reso da Gary Oldman) e scientifici.

 “Oppenheimer”, tratto dalla biografia di Kai Bird e Martin J. Sherwin e scritto dallo stesso regista, dura tre ore, mai monotone, nelle quali l’andirivieni nel tempo (sono tre i momenti salienti, due a colori, uno in bianco e nero) è aderente a una narrazione sincopata, resa tellurica a tratti dal montaggio serrato e ansiogeno di Jennifer Lame, tra lo spazio galattico del cielo stellato e la stanza claustrofobica del processo, tra le potenti esplosioni (la più importante dominata da un bel cut sonoro) e le tenebre della coscienza (magnificamente fotografate da Hoyte van Hoytema), le vicende personali di un uomo complesso (il controverso rapporto con la moglie – Emily Blunt) e quelle pubbliche di una corsa per alcuni inconsapevole agli armamenti.

Cillian Muprhy è un perfetto Oppenheimer, con il suo volto spigoloso e fragile, lo sguardo sulle stelle, ma più spesso nel vuoto: raccoglie l’istinto di uomo capace di capire più gli atomi degli umani, scosso dal suo stesso sapere e da un Potere atroce e insensibile. Attorno a lui e al progetto Manhattan nel deserto di Los Alamos gira una ronde di personaggi che alimentano una storia a dir poco beffarda per il singolo e malvagia per l’umanità: l’ambizioso e subdolo Lewis Strauss (Robert Downey jr.), il verace generale Groves (Matt Damon), il Niels Bohr di Kenneth Branagh, l’Einstein di Tom Conti.

Nel secolo dove la scienza e l’arte (Picasso, Stravinsky) destrutturano la loro forma, la scienza va di pari passo, ma non è un caso che questo grande, potente film si apra e si chiuda nel segno della Morte (di una stella, di una popolazione), con un’ultima inquadratura sulla Terra avvolta dal Male, speriamo non profetica, perché in fondo l’umanità è come Leonard Shelby, il personaggio del noliano “Memento”, incapace di ricordare. Voto: 8.

 

 

Ultimo aggiornamento: 18:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA