Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Morti, spiriti e fantasmi: com'è vivo il cinema
di McDonagh e Park Chan-wook

Venerdì 3 Febbraio 2023

“The banshees of Inisherin”, diventato in Italia “Gli spiriti dell’isola”, titolo tutto sommato attraente e pertinente, è un film che si può giudiziosamente definire bello. Quanto bello non importa: se ormai tutto deve essere o molto bello, tendente al capolavoro, o molto brutto, così da poterne parlare in quell’agonizzante desiderio di superlativi che sembra governare per molti oggi il dibattito al cinema, basti sapere che qui tutti gli elementi costituivi del film (sceneggiatura, recitazione, fotografia, montaggio, musica eccetera), quelli che oggi sembrano interessare poco o niente la critica più spavalda o più giovane, sono di evidente qualità, il che, visti i tempi, è già tanto. Magari non siamo davanti a un’opera innovativa o esteticamente sorprendente, però è un cinema che sa toccare, non senza anche un preciso “calcolo”, intensità ed emozione, al netto di una storia tutt’altro che banale. Martin McDonagh, che qualcuno ricorderà per i precedenti “In Bruges” e “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, tutt’altro che trascurabili, ci porta nell’atmosfera malinconicamente ostile di un’isola irlandese, con la vita che scorre noiosamente, dove per non sentire la solitudine si va al pub o si accudiscono gli animali. Padraic e Colm sono due vecchi amici che ogni giorno alle 2 del pomeriggio iniziano a farsi le pinte di birra. Ma un giorno Colm decide che non ha più voglia di avere questa relazione e comunica all’amico che di lui non ne vuole più sapere e che se lo importunerà si taglierà le dita della mano, rinunciando quindi a suonare l’amato violino e comporre musica. Storia insomma bizzarra, nel segno consolidato di questo autore. Ma non è tutto: dal continente echeggiano spari e boati (siamo negli anni della guerra civile, giusto un secolo fa), i due ex amici e il contorno dei pochi abitanti (la sorella di Padraic, il matto del villaggio, il poliziotto, il prete controcorrente, il padrone del pub eccetera), tessono le trame di una crescente conflittualità, fino alle estreme conseguenze. La presenza di una sinistra anziana che profetizza un futuro di lacrime e morte (uno degli spiriti del titolo) non fa che aumentare la tensione. Se l’insidia della metafora è innegabile (ma non è certo un limite del film), tra scogliere e spianate verdi l’arroganza del potere, ma anche dell’arte e della conoscenza, piega la semplicità e la spontaneità della gente comune. Restano in traccia orgoglio, la vita che perde memoria, l’amicizia infranta, la provocazione.In uno scenario vagamente western, del piccolo astio si perde presto il controllo: e la commedia (perché si ride molto), precipita nel dramma. Agli Oscar ci va con 9 nominations, da Venezia è tornato con la coppa Volpi a Colin Farrell (ma è bravissimo anche Brendan Gleeson, al pari di tutto il cast), e il premio alla sceneggiatura. E meritava di più. Voto: 8.

MALINCONICO NOIR - Un detective s’imbatte in un caso apparentemente di suicidio, ma conosciuta la moglie del defunto, oltre a innamorarsene immediatamente, ha la sensazione che possa trattarsi di omicidio, specialmente quando i morti diventano due. Un neo-noir dalla trama intricata, che s’avventura tra legami inattesi e pericolosi, investigazione e erotismo, nel quale Park Chan-wook mostra il lato malinconico affettivo, confusamente mischiato al senso del dovere. In "Decision to leave" alcune scelte di regia sono mirabili, come il finale sulla spiaggia. Il senso di smarrimento del protagonista è condiviso con lo spiazzamento continuo nelle inquadrature e negli slittamenti temporali. Alla fine resta il fascino di una storia, che come tutte le storie migliori magari non si comprendono sempre del tutto, ma si capisce di non poterle non amare. Voto: 7.

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