Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Maternità, la Gloria e il Corpo di Cristo
ma è una Voce che s'impone su tutti

Venerdì 14 Maggio 2021

Corpi esibiti, corpi negati. Corpi di ragazze-madri, corpi di suore, occultati per obbligo. Corpi che confliggono, con la società (maschile: e gli uomini qui infatti non si vedono, ma lasciano il segno – sui corpi femminili – fuori campo), anche con se stessi. Maura Delpero è bolzanina di nascita, ha già un buon passato da documentarista, dopo studi parigini e argentini (a Baires). Adesso a 45 anni esordisce nel cinema di finzione con questo “Maternal”, girato in un centro di accoglienza della capitale argentina per ragazze sole con figli (“hogar”, titolo originale), un racconto claustrale, tutt’altro che sereno, dove facciamo la conoscenza soprattutto con due ospiti: l’esuberante Lu, sempre agitata, ostile e sarcastica con le compagne e le suore, irrefrenabile col suo linguaggio scurrile; e Fatima, più riservata, quasi umbratile, di nuovo incinta. Sono amiche, ma non è facile esserlo lì dentro, dove il clima di sostentamento, anche morale, è mal controllato e spesso minato da scontri non solo verbali tra ragazze. Un giorno arriva dall’Italia suor Paola, dal volto angelico, spesso silenziosa, con la sua bellezza nascosta (lo svelamento sarà uno dei momenti intesi del film), di fatto inatteso terzo cateto tra Fatima e Lu, che in uno dei suoi momenti meno pacati, scappa da quel rifugio, per ritornarvi, ennesima “pecorella smarrita”, con i segni di incontri tutt’altro che pacifici, rischiando l’espulsione e la perdita della figlia. Delpero mantiene un lucido sguardo documentaristico: a contatto a lungo con tale realtà, mimetizzata tra le varie ospiti dell’hogar (in Argentina l’aborto non è reato solo da pochi mesi), sa trasmettere bene le tonalità di un ambiente chiuso, ma inciampa spesso purtroppo sugli snodi di una narrazione fin troppo schematica, bruciando le asperità, le contraddizioni, in contrapposizioni a volte facili, anche visivamente (l’immacolato bianco delle suore, l’alternativa pop delle ragazze), e spreca forse in un attimo il tormento interiore di Suor Paola, a contatto con una maternità (e il suo desiderio) che improvvisamente le appare terrena e non solo spirituale. Voto: 5.

LA VOCE DI TILDA E PEDRO - Presentato lo scorso settembre a Venezia, "The human voice" è una lezione di classe da Tilda Swinton e Pedro Almodóvar, rielaborazione personale del regista spagnolo della celebre pièce di Jean Cocteau e sulle orme di Anna Magnani (e Rossellini), tra sfavillanti colori, originali titoli di testa di utensileria d’autore, smascheramento della teatralità (e del cinema): un piccolo gioiello. Una stanza, una donna, l’ex amante, un cane, le valigie, un’ascia, una tanica di benzina e soprattutto un telefono che squilla: il monologo è già melò. Voto: 7,5.

SIC TRANSIT - Robert Guédiguian ci porta a Marsiglia per la nascita di Gloria e la scarcerazione dopo diversi anni del suo nonno, che ritrova la vecchia moglie Sylvie, ora felicemente riaccoppiata. Attorno a questo nucleo, arrivano le nuove generazioni con due figli (uno per marito) e compagni. Fedele al suo cinema, Guédiguian raccoglie attorno a sé ancora una volta gli attori più cari (Ascaride, Darroussin), la sua città, le sue coordinate. Ne esce un film abbastanza stanco, dolcemente appoggiato alle proprie sicurezze creative, dentro un dramma dove l’umanità più povera resta intatta, come la morale delle vecchie generazioni, al contrario dei giovani d’oggi che pensano solo al successo, al denaro, senza sacrificarsi. "Gloria mundi" è un po’ troppo schematico, anche se sincero. Ma forse è un regista che ha consumato tutta la sua forza, anche politica. Voto: 5.

FALSI PRETI – Un prete che non è un prete ma che come prete riesce a trovare un dialogo con i parrocchiani del luogo. Fino a quando non è scoperto. Siamo in Polonia e in verità il prete è solo un ragazzo che sta in riformatorio per omicidio. Grazie a un permesso di lavoro, non rientra e si ferma in una piccola comunità di provincia, rimasta senza parroco. Tutti gli credono e tutti gli vogliono bene, anche se i suoi modi non sono troppo ortodossi. Il polacco Jan Komasa con "Corpus Christi" firma un ritratto spavaldo, ma sincero, di un uomo di “fede” inventato sull’altare, riflettendo, in modo purtroppo abbozzato, sul Potere e sull’umanità, su un pacifismo di facciata, su colpa e redenzione, vissuto sul corpo contraddittorio di una Nazione intera e su quello ostentato come l’agnello in croce di Bartosz Bielenia, nella sua nudità cristologica. Voto: 6.

 

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