Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

La favorita: il Potere, le donne e la crudeltà
Creed II: la gioventù oltre il Mito dei padri

Venerdì 25 Gennaio 2019

Non è facile apprezzare un regista antipaticamente ruvido come il greco Yorgos Lanthimos. Anzi, più facile detestarlo. Esponente di punta del nuovo cinema greco, che ha trasportato sullo schermo il momento indubbiamente critico di un Paese drammaticamente allo sbando politico ed economico, Lanthimos, non solitario in questo percorso (si pensi, a esempio, anche al più insopportabile Avranas), ha intensificato il suo sguardo aspro, con una crudeltà compiaciuta, ponendo le storie dei suoi film in una narrazione nevralgicamente astiosa. Da qui sono nati i suoi lavori principali, da “Kynodontas” a “Alps”, da “The lobster” al più recente “Il sacrificio del cervo sacro”, tutti indirizzati a descrivere una realtà malata, dissipata nell’anima e spietatamente cattiva.
“La favorita”, doppiamente premiato all’ultima Mostra di Venezia (regia e interprete femminile), conferma questa passione per vicende causticamente degenerate, ma sembra esplorare, a sorpresa, un lato più irriverente che irritante, non a caso affilando l’arma dell’ironia più grottesca all’interno della corte britannica, notoriamente bersaglio nobile per uno scandaglio beffardo. Così “La favorita” diventa senza dubbio il suo film migliore, proprio perché la storia di per sé già cinica e crudele, non sembra richiedere ulteriori, pesanti accanimenti, che Lanthimos solitamente non evita.
Siamo nell’Inghilterra del XVIII secolo, alla corte della regina Anna, durante la guerra contro la Francia. Un giorno arriva Abigail (Emma Stone), una nobile decaduta per un ruolo da cameriera: dapprima umile, si insinua nel rapporto lesbico tra la stessa regina (una Olivia Colman da Coppa Volpi) e la duchessa di Marlborough (Rachel Weisz), che di fatto governa la Nazione, fino a sostituirla nel ruolo (anche di letto). Scritto con acre sarcasmo, con dialoghi avvelenati in punta di fioretto e una matrice soavemente perfida che ricorda "Eva contro Eva", è un’opera buffa e violenta, dove le donne mostrano il loro lato malvagio, per avidità e potere. Il barocco gioco spietato al massacro, al ritmo di sarabanda barrylindoniana, si muove con grande agilità, nelle stanze codificate dal dominio (politico e sessuale, in questo caso) che accavalla la propria genesi e la propria nemesi attraverso l’esercizio saffico della seduzione e della rivalità.
Scritto da Deborah Davis e Tony McNamara, e quindi per la prima volta non dallo stesso regista (la differenza, in meglio, appare evidente), il film si giova di una scaltrezza narrativa tra la ricostruzione d’epoca e la ruffianeria, capace di strappare il divertimento, tra una battuta di caccia e una al vetriolo. Non che sia, come detto, particolarmente difficile mettere alla berlina la casa reale britannica, ma la sorpresa di un Lanthimos così leggiadro (ma ugualmente velenoso) merita attenzione.
Stelle: 3


CREED II: LA NUOVA GIOVENTU' E IL SUPERAMENTO DEL MITO
 - La saga di Rocky, a partire dal film iniziale (1976, John G. Avildsen) e proseguendo con i 5 seguiti, fino a “Rocky Balboa” (2006, firmato dalla stesso Sylvester Stallone), è un’enclave mitologica all’interno del sottogenere di cinema sportivo dedicato alla boxe. Nel tempo il racconto di questo leggendario pugile, cui Sly ha regalato la performance fisica e attoriale più importante della sua carriera, è andato verso il proprio crepuscolo: la storia si è fatta ancora più malinconica e l’eroe ha costruito su di sé una decadenza struggente.
Dallo spin-off “Creed” (2015, Ryan Coogler), attraverso il quale Rocky diventava il maestro del figlio (Adonis) del suo più grande rivale Apollo (poi suo amico), il filone narrativo ha trovato nuova interessante linfa spingendo lo sguardo sulle nuove generazioni. Adesso nel sequel firmato da Steven Caple jr., dove Stallone torna a essere anche sceneggiatore, Adonis (Michael B. Jordan) rivede il ring, pronto a dimostrare la maturità raggiunta. Ma stavolta il combattimento squarcia l’agonismo con la più dolente delle situazioni: dovrà contrapporsi al figlio di Ivan Drago (il russo che gridava in “Rocky IV”: io ti spiezzo), che gli uccise il padre in gara, dove Rocky era secondo e non gettò la spugna. E lo spin-off s’intreccia, per entrambi, in modo sentimentale e melodrammatico alla saga principale.
“Creed II” è il canto rumoroso di un passaggio generazionale, attraverso il riscatto personale anziché la vendetta, che guarda anche al futuro (si veda il finale parallelo sui bambini), capace di mettere la giusta energia nei combattimenti, ma anche di sostare troppo sulle corsie familiari, che sono le più fragili narrativamente. E se la retorica si gonfia anche prepotentemente al pari del delirio pugilistico sul quadrato (attenzione a quando arrivano le note celebri di “Rocky”) e soprattutto della contrapposizione russo-americana (grettezza e forza bruta contro intelligenza e strategia), la nuova gioventù si butta alle spalle il Mito dei padri, costruendo la propria vita. E la genuinità dei sentimenti sferza le iperboli, mettendo sempre e comunque l’uomo davanti più alle sue sconfitte e non tanto ai trionfi. 
Stelle: 2½
  Ultimo aggiornamento: 09:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA