Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

L'andirivieni del tempo è un rompicapo
Tenet, Nolan e una baldoria che si sgonfia

Giovedì 27 Agosto 2020

Forse il pregio maggiore di Tenet, l’ultimo film di Christopher Nolan, è portare il suo autore a un presunto capolinea di una tormentata “poetica” del tempo: dopo questo, che altro potrebbe mai dire, ammesso che anche Tenet abbia suggerito qualcos’altro di aggiuntivo? Insomma è risaputa la tenacia con cui il regista londinese affronta ogni volta la dimensione spazio-temporale all’interno delle sue opere, disseminandole con ingombranti operazioni manipolatorie, tra il mistico e la baraonda, certo non prive di fascino, ma alla lunga quasi stucchevoli nella loro ossessione; ma è pur vero che ne resta totalmente imprigionato, incapace di uscire dai suoi loop, dalle sue architetture complesse, dove la narrazione si stritola, fregandosene tra l’altro di essere assorbita dallo spettatore.
Sia chiaro: il problema principale di Tenet, atteso come la manna per riportare finalmente la gente al cinema in questo anno travagliato (il suo vero pregio), non sono, ancora una volta, le vaste zone incomprensibili del racconto. Il cinema è da sempre il terreno prediletto per ogni sospensione del reale e d’altronde ci sono diversi film cult che non corrispondono a una compiutezza esatta della narrazione; quindi chi se ne frega se alla fine del film restano tanti e tali dubbi su tutto. La sensazione è che semmai dentro questo agitarsi tra presente e passato, questo scontrarsi frontalmente tra direzioni temporali opposte (che qui, nella loro reiterata rappresentazione, raggiungono anche visivamente un’assuefazione inevitabile), resti ben poco non solo della storia (appunto, chi se ne frega), ma anche di tutto l’armamentario filosofico e scientifico, che Nolan persegue da sempre, come se il suo continuo gioco di prestigio sfumasse in una nuvola impalpabile, in uno sbuffo finale sentimentale.
Della parola tenet è forse poco nota la sua presenza nel “quadrato di Sabor”, una iscrizione latina, dove cinque parole (sator, arepo, opera, rotas e ovviamente tenet) si possono leggere dall’alto in basso e viceversa, da destra a sinistra e viceversa. Nel gioco irresistibile del palindromo, Nolan costruisce una storia a ridosso di una possibile Terza Guerra Mondiale, nel tempo crepuscolare della Terra, la cui distruzione avverrebbe tramite l’inversione di ogni dinamica reale e sensoriale, spiegata in un pistolotto piuttosto petulante all’inizio del film. Così quelle 5 parole diventano personaggi e luoghi, mentre il Protagonista (così chiamato) è in lotta per salvare il Pianeta e tenet ovviamente è la chiave con la quale si tiene in piedi questo universo sfaccettato, con la sua urgenza di sopravvivenza, con tutti gli sbalzi cronologici, i rovesciamenti di fronte, la abilità cangianti dei protagonisti, mentre tutto scoppia, deflagra, come nel lunghissimo finale da campo di battaglia, dove il tempo (del cinema) sembra non volersi acquietare mai. Ma le cose non vanno comprese, come si dice in una scena, si devono sentire: è forse davvero questa la chiave di tutto?
Accostandosi a Inception e Interstellar, sollecitando certe dinamiche bondiane, Nolan sacrifica anche tuttavia, come gli accade quasi sempre, la sua riflessione sulla macchina cinema a un gigantismo strutturale, che lievita sicuramente le suggestioni delle visioni (il teatro, l’aereo, i camion in autostrada, per accendere lo stupore tecnico), ma ne palesa paradossalmente anche la sua vacuità. E così John David Washington, Kenneth Branagh, Elisabeth Debicki, Robert Pattinson (al quale va almeno il merito di un personaggio più ironico), nel loro contorsionistico movimento di personaggi  fluttuanti nel tempo, finiscono vittime della loro stessa vertigine, dove destino, libero arbitrio, universo, tempo, spazio si arrovellano nella centrifuga frastornante di uno sbadiglio. Voto: 5.

  Ultimo aggiornamento: 21:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA