Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Judy, l'arcobaleno stavolta è incolore
Charlie e un corpo in fuorigioco

Giovedì 30 Gennaio 2020

L’errore principale di Rupert Goold, nell’avvicinarsi alla figura di Judy Garland, celeberrima attrice e cantante, vissuta 47 anni e della quale si ricordano almeno “Il mago di Oz” e “È nata una stella”, è quello di aver tenuto una distanza asettica di sguardo dalla sua vicenda tormentata, delegando l’impatto emotivo alla forza del personaggio in sé e della interpretazione, salutata con eccessiva enfasi oltreoceano, di Renée Zellweger, che anziché accrescere le sfumature e le contraddizioni, le riscalda solo con ripetitive espressioni facciali, perdendo così di vista il flusso delle emozioni ed elaborando un biopic di glaciale disinteresse.
Alternando il montaggio con i ricordi giovanili e lo strazio degli ultimi anni (qui siamo durante la breve tournée a Londra nel 1968, pochi mesi prima della morte), Goold intende ripercorre il cammino di uno dei tanti divi, prematuramente sul palcoscenico della celebrità e poi incapaci di misurarsi con la vita, dividendo gli anni tra mariti (Judy ne ha avuti ben 5) e soprattutto bicchieri di alcol e farmaci, che causarono tra l’altro il decesso ancora in un’età piuttosto giovane; ma il risultato va in tutt’altra direzione, perché la mamma di Liza Minelli (il regista Vincente fu il suo secondo consorte) finisce con l’essere una figura piatta, come piatto è tutto il film, visibilmente sconnessa dalla vita, ma incapace di accendere una luce di partecipazione emotiva, anche quando si sfiora come il mondo dello spettacolo sia sempre stato corrotto e che a pagarne di più fossero le donne.
In questo “Judy” avrebbe dovuto concentrare su di sé una complessità di sentimenti, rapporti e affetti, che nel film, al contrario, mancano totalmente, se si accentua forse l’ultimissima parte, quando di fronte a una performance improvvisata e davanti a una platea sorpresa della sua presenza, arrivano le note del suo più celebre brano. In quell’improvviso silenzio assordante, quando gli spettatori si mettono a cantare al posto suo, a cappella, “Over the rainbow”, il film ha finalmente uno strappo emozionale, mancato per tutta la durata della pellicola, e che fa pensare a cosa semmai il film poteva essere e non è stato.
Tratto dallo spettacolo “End of the rainbow” di Peter Quilter, è un film che in pratica si dimentica di Judy, della quale alla fine, pur essendo in scena dall’inizio alla fine, si capisce poco, se non nell’estro dell’attimo, nella lacrima improvvisa e in quel dolore per la vita che resta in superficie. In un momento cinematografico in cui il biopic sembra essere un’idea nevralgica produttiva, Judy fa in fondo la stessa fine di Freddie Mercury ed Elton John: lì chiusi nella loro sarabanda di luci e colori, qui nel mesto crepuscolo di una bambina cresciuta male.
 Voto: 5.

CHARLIE, UN CORPO IN FUORIGIOCO
- Charlie è un ragazzo di talento: gioca a pallone molto bene e sta per essere ingaggiato da una squadra importante. Il papà è orgoglioso, sperando che il figlio possa intraprendere quella carriera a lui negata. Ma c’è un problema: Charlie si sente imprigionato nel suo corpo maschile. Di nascosto si veste con abiti femminili, ma viene scoperto.
Senza avere la forza di “Tomboy” o di “Girl”, il problematico “Just Charlie” disegna un convenzionale ritratto travagliato di chi vive l’ostilità del padre e della società. Il coming of age di chi in campo e fuori si sente costantemente in fuorigioco è un po’ piagnucoloso, ma la realtà transgender arriva comunque in tutta la sua drammaticità. Bravo il giovane protagonista.  Voto: 5. Ultimo aggiornamento: 31-01-2020 09:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA