Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

It: Ridi pagliaccio, ma la paura è a effetto
Una donna fantastica, ma il film lo è meno

Giovedì 19 Ottobre 2017

L’icona del clown come entità terrorizzante comincia la sua notorietà proprio con “It” alla fine degli anni ’80, prima con il romanzo di Stephen King (1986) e successivamente con la trasposizione televisiva del 1990 portata sullo schermo da Tommy Lee Wallace. Se Pennywise, il nome del pagliacco kinghiano, è il primo della serie ad avere una buona fama (pensato sull’onda dell’arresto del serial killer John Wayne Gacy, che adescava così le sue vittime), il cinema ha poi sfruttato questa figura in modo più deciso e sensazionale, portandolo a radicale maschera della paura, fino al diabolico, grottesco Capitano Spaulding, innervato dalle storie perverse di Rob Zombie (“La casa dei mille corpi” e il successivo “La casa del diavolo”), più terrificante che mai in quanto rappresentante del realismo disturbato di una famiglia scellerata.
Ora Andrés Muschietti, regista argentino famoso per l’horror “La madre” (2013), porta sullo schermo il remake della versione televisiva, confrontandosi ancora una volta con uno dei romanzi impraticabili di King. Aggiorna l’infanzia dei Perdenti (il gruppo dei ragazzi vessati da coetanei e anche dai propri genitori), a fine anni ’80 (e quindi non più ’50) e la separa dalla fase adulta, al contrario del romanzo che interseca i due momenti storici dei protagonisti, al pari della prima riduzione tv. Ogni scintilla nostalgica viene dunque ignorata e delegata probabilmente solo agli spettatori che rivedono ricostruito quel mondo di trent’anni fa, soprattutto con una serie di rimandi estetici traboccanti, come d’altronde l’insegna dedicata a un “Nightmare” suggerisce.
Eccoci dunque a rifare i conti con il Male che torna a farsi vivo ogni 27 anni nella città di Derry, terrorizzando e facendo sparire i ragazzi; ecco dunque ridestarsi la naturalezza dell’adolescenza macchiata dalle ostilità della provincia americana, sia quella di altri adolescenti, la band di piccoli delinquenti, che di adulti capaci soltanto di soffocare la libertà, anche in tema di aggressività sessuale. Ma Muschietti si limita a redigere un almanacco situazionistico di situazioni malvagie, prediligendo lo choc e l’effetto horror e disperdendo le varie psicologie, i rumori sordi di una società malsana. Se la crudeltà del clown Pennywise qui è più esplicita, a cominciare dall’incipit con la mutilazione del piccolo Georgie, il film costruisce purtroppo il labirinto emozionale servendosi soprattutto di un abbecedario riscritto perfettamente per lo sguardo d’oggi: un’operazione senza dubbio furba e accattivante, ma che avvicina il tutto più a una versione grezza di “Stranger things” che non a “Stand by me”.
In attesa del Capitolo Due (che confluirà ai giorni nostri), la paura del pagliaccio che ride coverà ancora sulla paura, sul senso della morte e sui corpi non più illesi di una gioventù al capolinea.
Stelle: 2


UNA DONNA FANTASTICA, UN FILM MENO - Qualche anno fa il regista e sceneggiatore cileno Sebastian Lelio ebbe un momento di grande notorietà con il film “Gloria”, corposo ritratto di una donna quasi sessantenne, divorziata, in cerca di una nuova relazione e di un senso nella propria vita. Adesso ecco di nuovo Lelio impegnato a descrivere i tormenti esistenziali di una donna, a suo modo “fantastica”, come da titolo: la sua particolarità, svelata presto nel film, è che in realtà si tratta di una persona transgender.
Il primo dramma che accade nel film a Marina, al di là della propria identità personale, è che il suo compagno Orlando, di vent’anni più vecchio, muore per un malore nella notte, dopo aver festeggiato il compleanno di lei. Da quel momento la vita di Marina viene stravolta: il figlio e la ex moglie di Orlando praticamente la buttano fuori di casa e le proibiscono di assistere ai funerali, mentre la gente con cui entra in contatto (poliziotti e medici) si rivelano ostili; soltanto il fratello di Orlando, Gabo, ha un minimo di generosità nei suoi confronti, ma la sua pacatezza è anche indice di remissione nei confronti della famiglia e quindi può fare assai poco.
Prodotto da Pablo Larraín, il film ha una sensibilità sincera nell’accompagnare il calvario di questa persona, all’interno di una società che fatica ad accettare qualsiasi diversità: succede ancora a ogni latitudine, ma sicuramente in Cile è sempre più complicato vivere rispetto a Parigi. Fondamentale è l’apporto attoriale di Daniela Vega, che si carica con bravura il peso di una credibilità significativa. Dove semmai il film ha qualche intoppo è in una visione un po’ manichea degli accadimenti, dove i personaggi sgradevoli sono privi di qualsiasi sfumatura, spesso perfino caricaturali: la scena del breve rapimento è grezza ed esagerata, la visita medica forzatamente antipatica; meglio la soluzione simbolica, come quando Marina deve affrontare il vento in strada che non le permette quasi di camminare, anche se l’idea non è particolarmente originale.
In concorso all’ultima Berlinale, è in definitiva un film sempre utile, ma che si schiera dalla parte dei più deboli in un modo semplicistico.
Stelle: 2½
  Ultimo aggiornamento: 23:08 © RIPRODUZIONE RISERVATA