Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

I D'Innocenzo perduti in America Latina
Ozon e la morte: il dramma si fa commedia

Sabato 15 Gennaio 2022

Massimo (uno spigoloso, misterioso e inafferrabile Elio Germano) è (forse) un dentista. Ha una bella villa con piscina, una moglie, due figlie, un amico. Il suo mondo è tutto qui e probabilmente è solo una proiezione. In più c’è un altro personaggio: una bambina, apparentemente rapita, che è legata e imbavagliata nella cantina di casa. La terza opera dei fratelli d’Innocenzo sembra segnare, se non un vero e proprio passo indietro, almeno una pausa nel processo identificativo di una autorialità che resta coerente, ma che rispetto ai lavori precedenti si colloca su un piano di solipsistica elaborazione di un personaggio squilibrato, che forse ha compiuto azioni criminali e che vive costantemente la sua quotidianità allucinatoria. “America latina” parte già dal titolo per costruire un percorso tra il mistero e il depistaggio: in realtà Latina è la zona in cui si manifesta il film, luogo un tempo paludoso, malsano, che spunta attraverso una notizia di cronaca, escamotage già sfruttato nel precedente “Favolacce”; America è un omaggio a un genere, il thriller psichico, molto americano e amato dai due gemelli. Si procede per indizi, suggerimenti, scarti, un puzzle in cui bisogna capire ciò che è reale (molto poco) e ciò che è frutto della mente distorta di Massimo (quasi tutto). È un film incapsulato nella testa del protagonista, le azioni possono essere proiezioni, anche se alcune cose sono davvero successe. È la tragedia di un uomo solo, colto costantemente in angoscianti primi piani: l’unica apertura riguarda l’inquadratura esterna della casa, una villa isolata, architettonicamente rilevante. “America Latina” patisce probabilmente un azzardo ambizioso, il tentativo poco riuscito di gestire un materiale a suo modo claustrofobico quando non lisergico, piuttosto affascinante, ma anche insidioso. Ne esce un film senza respiro narrativo, psicologicamente limitato, sicuramente antiborghese, ma incapace di affermarlo con forza, semmai quasi orgoglioso delle proprie ambiguità. In soccorso vengono alcuni flashback, dove l’ipotesi di una ricostruzione del passato dovrebbe aiutare a ricostruire un quadro meno approssimativo: il lavoro, gli amici, la famiglia, i cani, una realtà che si contorce continuamente, un passato che echeggia e va a sbattere contro un oggi liquefatto, dove la cantina, sempre più allagata, rappresenta la zona buia della mente. Fin dai tempi di “La terra dell’abbastanza”, Fabio e Damiano D’Innocenzo hanno costruito un percorso orgogliosamente spiazzante, anche restando dentro i confini dei codici del genere. Qui la rincorsa a sorprendere, finale compreso, è figlia di una programmazione meno libera (se mai libero è stato davvero il loro cinema), dove l’identità del protagonista, alla fine, è un po’ anche quella del film. Voto: 5.

LA VOGLIA DI DIRE BASTA - Emmanuelle, scrittrice, è informata che il padre ha avuto un ictus ed è grave in ospedale. Al capezzale arriva anche la sorella, non altrettanto amata dal genitore, e il suo compagno. Una famiglia intellettuale. L’anziano genitore recupera ma esprime un inatteso, sorprendente desiderio: vuole morire, perché ormai la vita gli sta togliendo tutto. Ma non si può. La legge lo vieta. L’unica scelta è andare in Svizzera. Un dramma (personale, esistenziale), un tema quanto mai attuale (l’eutanasia rappresenta ancora un dibattito piuttosto divisivo) che François Ozon affronta depistando il racconto con i toni della commedia, a tratti perfino esilarante. Il regista francese ha da sempre il coraggio di misurarsi con elementi diversi, storie contrapposte, meccanismi ribaltati, in una caleidoscopica carriera, dove l’apporto di una originalità mai forzata accresce l’interesse per un cinema che riesce a scavare nella profondità dei sentimenti e dei rapporti tra le persone. Un regista sfaccettato (e discontinuo), i cui film sembrano al solito più leggeri di quello che sono, compreso quest’ultimo “È andato tutto bene”, passato in Concorso all’ultimo festival di Cannes. Non ha bisogno di ampliare la situazione a un contesto sociale: resta nell’ambiente intimo e perfino protettivo della famiglia, un gruppo di persone a cui non mancano rapporti feriti in passato. Il desiderio di André (un bravissimo André Dussolier, che trova attimi di capriccio e ironia) di voler chiudere la sua esperienza di vita turba figlie e moglie, proprio adesso che sembra aver superato l’attacco malvagio della malattia. Ozon svela ancora una volta un mondo borghese, non privo di sotterfugi e segreti (l’omosessualità latente e nascosta di André ha toni ilari nel suo esprimersi, come nella scena del ristorante), in un suo contesto classico e ogni volta cangiante; e come per altri temi personali, Ozon pone la libertà della scelta (di come vivere, di come – e quando – morire) sopra tutto. Ne esce un film bello e fintamente banale, sorretto dalle interpretazioni, tutte al solito rilevanti, di Sophie Marceau, Charlotte Rampling, Eric Caravaca, Hanna Schygulla, Géraldine Pailhas. Voto: 7.

 

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