Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Gucci: e alla fine restò solo un'insegna
Diabolik, più rosso mélo che nero crimine

Venerdì 17 Dicembre 2021

E alla fine di una famiglia, svuotata di ogni suo componente (defenestrato, morto per cause naturali, per assassinio eccetera) restò solo il marchio, il suo fregio, la sua immagine, come una scatola senza più niente dentro: Gucci senza più alcun Gucci, in barba a quel “Nel nome del padre, del figlio e della famiglia Gucci”, pronunciato da Patrizia Reggiani (una Lady Gaga sempre più brava) a metà film. In questo “House of Gucci” di Ridley Scott agisce sul contemporaneo in modo esemplare, sulle rappresentazioni e sugli oggetti (la scarpa con la foglia d’oro nascosta, su tutti), sul mirabolante fascino passeggero del potere e del denaro, esposto nelle vetrine luminose e nei lugubri interni di case lussuose e cadaveriche. Lo fa esplorando con impietosa analisi la carica devastatrice di una famiglia, dove in modo cannibale ogni elemento ne divora a catena un altro, in un carosello inarrestabile di ascese e cadute, dentro il sacrilegio di ogni rapporto e nell’infinita trasformazione dei personaggi da carnefici a vittime e viceversa. Non importa se Scott si permette variazioni rispetto alla vicenda reale, a cominciare dallo spostamento temporale iniziale dell’incontro tra Patrizia e Maurizio Gucci: non gli interessa una ricostruzione cronachistica dettagliata (e d’altronde i Gucci di oggi non hanno preso per niente bene il film); gioca con le ellissi e lusinga le dinamiche luciferine, non nascondendone i risvolti grotteschi e cedendo quasi alla parodia (il Jared Leto di Paolo Gucci) e mostrando l’armamentario crudele di un’autodistruzione. E falso per falso, non lo erano anche le borse griffate che a un certo punto appaiono a New York, che scatenano una discussione merceologica con lo zio Aldo (Al Pacino, ormai istrionico col pilota automatico)? "House of Gucci" sembra semmai la versione aggiornata del suo medievale “The last duel”, uscito anch’esso da poco (anche lì con Adam Driver, ancora una volta in mirabili sottrazioni) e sembra anche l’ossessione di un regista attirato dall’Italia (“Tutti i soldi del mondo”, sul rapimento di John Paul Getty III, altra famiglia miliardaria), ma soprattutto è il canto rovinoso di possessioni incontrollate, che fanno tanto “Padrino” e “Dynasty”, con un cast stellare, canzoni usate in modo cocciutamente didascalico, e un senso mortale delle cose, dove a sopravvivere è solo un’insegna. Voto: 7.

FUMETTOLOGIA DI UN BANDITO - Si capisce presto come ai fratelli Manetti interessi soprattutto il risvolto mélo, l’audacia seduttrice di Eva (l’affascinante Miriam Leone), qui riassunta in riverberi quasi hitchcockiani, che sembra quasi conquistare del tutto la scena, più che quella delinquenziale di Diabolik (un Luca Marinelli fortunatamente controllato), che fa sfoggio di abilità e personalità cangianti. I Manetti sono altrettanto arditi nel togliere al film l’istinto dell’azione, il fracasso dei giorni nostri, senza confezionare necessariamente un’opera vintage, ma calata in un tempo sospeso, indeterminato. Così si torna certo a quell’immaginario anni ’60, attraversando l’operazione che ne fece Mario Bava più di mezzo secolo fa (qui e là con accenni sintomatici nelle atmosfere), ma andando però in tutt’altra direzione. In un film che sembra mancare a lungo di ritmo (salvo la parte finale, ravvivata anche dagli split screen), tratto dall’albo a fumetti numero 3 delle sorelle Giussani, dove Mastandrea è un Ginko di pacata solidità morale, conta forse più il rosso del cuore che il nero del crimine, come la piattezza fumettistica, non sempre servita al meglio da scelte registiche azzeccate, più di adrenaliniche imprese malavitose. Voto: 6.

 

Ultimo aggiornamento: 18-12-2021 20:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA