Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Gli opposti purtroppo non si attraggono:
Wenders super, Castellitto presuntuoso

Venerdì 12 Gennaio 2024

È l’alba su Tokyo. Il sole in lontananza sta svegliando la città. Hirayama, nome-omaggio a un personaggio di un film del grande Ozu, è un uomo in età avanzata, probabilmente vicino alla pensione. La sua occupazione è molto umile: pulisce i gabinetti pubblici, sparsi per la capitale. Si alza al mattino e tra una fermata e l’altra nei posti di lavoro, dove minuziosamente compie il suo servizio, con un rigore metodico, si sofferma a mangiare qualcosa, spesso al parco, scattando delle fotografie, generalmente ad alberi, e prima di tornare a casa si lava nei bagni a pagamento. È un uomo solitario. Non ama parlare, nemmeno con l’umanità che occasionalmente si presenta davanti. Ha alcuni passatempi: fare dei giri in bicicletta, leggere e ascoltare musica anni ’60-’70, attraverso le musicassette. Una vita prettamente analogica. Anche la macchina fotografica non è digitale. Compra ancora le pellicole e fa sviluppare le foto, che poi cataloga o cestina. Raramente ha incontri: una donna che ogni tanto osserva al parco, una nipote che viene a trovarlo, un istrionico collega di lavoro che si licenzia presto, un uomo ammalato di cancro. La sua vita, insomma non ha niente di speciale, è monotona e ripetitiva e in quella abitudinarietà trova una calma si direbbe perfino rassegnata al senso di una tale esistenza. 

Wim Wenders torna in Giappone, dopo “Tokyo-Ga”, e quindi soprattutto al grande amato Ozu: il nome del protagonista, come detto, arriva direttamente da “Il gusto del sakè. “Perfect days” è un film contemplativo, vagamento nostalgico di un mondo passato (tutto l’apparato analogico che rappresenta la quotidianità del protagonista) che Hirayama continua a vivere, attraverso l’arte, la letteratura, la musica, qui ascoltata anche dai protagonisti, quindi interna alla narrazione. È un film di rumori e di silenzio, di una città che pulsa e che mostra una fatale solitudine: Hirayama è parco nelle sue manifestazioni sociali, scandisce il tempo con passaggi rituali, come a crearsi una protezione dalla realtà contemporanea, accettata solo nella forma-lavoro. Al massimo si concede una partita a distanza con uno sconosciuto, con un foglio di carta lasciato in un luogo nascosto. Wenders torna al suo cinema migliore. Forse non c’è quella spinta giovanilistica di un tempo, ma lo sguardo posato del maestro: un “nel corso del tempo” reale e sognato (con inserti struggenti in bianco e nero), tra una hit degli Animals o di Lou Reed (la cui canzone dà il titolo al film), una di Nina Simone o di Janis Joplin, colonna sonora eterna (e mai banale, nonostante la fama, che di fatto è la colonna sonora della vita del protagonista). Straordinario Kōji Yakusho, interprete assoluto del film, sempre in scena, capace di illustrare i sentimenti attraverso impercettibili movimenti della faccia e giustamente premiato come miglior attore a Cannes. Voto: 8.

Se l’opera seconda esalta quella di esordio allora vuol dire che le cose vanno per il meglio. E in effetti “Enea”, seconda regia di Pietro Castellitto, rafforza l’idea lasciata dopo “I predatori” e quindi dovrebbe essere un buon segnale. Purtroppo no: perché qui si confermano tutti i difetti di un giovane autore, che paga lo scotto di essere anche figlio d’arte e come già detto a Venezia, qualche mese fa, il suo “Enea” nell’affollata presenza italiana in Concorso, è stato il punto più sconfortane di tutta la pattuglia italiana. Comunque siamo di nuovo a Roma, perché dopo “I predatori”, da lì o zone dell’hinterland non ci si muove. Enea (lo stesso regista) ha un nome che spiega già molto (il fratello più piccolo, se interessa, si chiama Brenno…): sta spesso con l’amico Valentino, che ha la passione per il volo. Sono ragazzi della borghesia romana: la mamma e il padre di Enea (quest’ultimo è proprio Sergio, il padre vero), sono insoddisfatti della loro pur agiata vita, i figli passano i giorni e le notti nella Roma delle terrazze e delle feste, ma soprattutto si danno da fare nel mondo della droga. Perché amano esagerare. Un po’ come lo stesso regista fa sullo schermo. 

Circondati da biechi scrittori, ragazze suppellettili, piccoli gangster di quartiere, Enea e Valentino si strapazzano a più non posso, cercando l’incantesimo inebriante dell’esistenza. Sono ragazzi svogliati, già svuotati di ogni interesse che non sia lo sballo. Così a ben guardare il problema maggiore del Castellitto jr. regista non è l’ambizione: in realtà è un regista presuntuoso, volutamente debordante e maldestramente provocatore, al quale piace il gioco disfattista, più innocuo che graffiante, e lo stupore furbo di dadaismi di montaggio. Qui si lancia in un’operazione che sposa, pensando forse di sorprendere, il Sorrentino de “La grande bellezza”, del quale vorrebbe imitare anche lo stile appariscente e spesso esornativo, con la ruvida e muscolare sinfonia delle pistole cara a Stefano Sollima, solo che almeno Sollima fa sentire davvero il rumore e l’odore della polvere e della morte, mentre Castelllito no, soltanto la componente chiassosa. Ne esce un film consapevolmente disturbante, fino alla irrispettosa scena che richiama, in modo spiacevolmente spettacolare, il dramma delle Torri Gemelle (era davvero necessario tale provocazione?), che spreca purtroppo anche quel po’ di talento che si intravvede qua e là, che va detto sinceramente non manca, e che affoga in una ipertrofica manifestazione di sé, tra le Spiagge di Renato Zero e un finale con tanto di ascensione al cielo. Peccato davvero: perché non avendo il senso della misura, si finisce col restare in alto mare senza salvagente. Voto: 3.

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 18-01-2024 10:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA