Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

France, la verità deformata delle immagini
I giganti, Angius giganteggia nel buio

Venerdì 22 Ottobre 2021

Bisogna ritornare all’inizio, a quella “Età inquieta”, con la quale Bruno Dumont cominciò a perlustrare la realtà, fissandola su conflittualità atroci, su contrapposizioni disturbanti, scontrando il suo cinema sul terreno insidioso tra il mistico e il Male, il sesso (si pensi al tanto deriso “Twentynine Palms”, passato malamente a Venezia nel 2003) e la violenza, la follia e il dolore, sempre in modo provocatorio, scostante. Un autore respingente ma capace come pochi di affrontare la contemporaneità nei suoi aspetti più controversi, spingendosi negli ultimi tempi, almeno dalla serie tv “P’tit Quinquin”, su un terreno più grottesco, di commedia sarcastica, o di operazioni totalmente destabilizzanti, come il musical sull’infanzia di Giovanna D’Arco (“Jeannette”), sublime opera di contaminazione dei generi. Dumont non poteva non arrivare a “France”, che è prima di tutto un nome di donna e poi ovviamente quello della Nazione. Non a caso il film parte da una “ricostruzione” quasi sbalorditiva di una conferenza stampa del presidente Macron, alla quale partecipa France de Meurs. Più che una giornalista televisiva, che spinge la sua attività anche su territori bellici assai pericolosi come la lotta all’Isis, France è una star. Adorata dal grande pubblico, ha un marito e un figlio, che non sono i suoi punti di riferimento principali. Un giorno per una distrazione fatale, colpisce con l’auto un giovane rider, unica fonte di guadagno di una famiglia in difficoltà. I danni non sono elevati, ma France rimane sconvolta, tanto da ipotizzare il ritiro dalla scena, ma non è facile: il rigurgito dello show la incalza. Dumont scava dentro i comportamenti di una società malata, dove ognuno è ormai spinto ad accettare meccanicamente qualsiasi inganno (come le colossali costruzioni di reportage e inchieste, di cui France è una fuoriclasse, assieme alla sua agente dello studio); la violenza (perpetrata e/o subita, in egual misura di rassegnata tragedia), l’idolatria (il fanatismo che fa superare ogni ingiustizia, anche nelle forme più semplici di un selfie). Tutto questo sfocia in un colossale travisamento percettivo che fonda il suo successo sulla finzione e sulla spettacolarità (non ne è esente nemmeno il cinema, con un mortale incidente stradale risolto in modo parodistico). L’umanità cannibalizza se stessa, la verità trasloca nelle sue forme più mistificatorie, tutto diventa rappresentazione, il mondo vive ormai solo dentro un’orgia collettiva di immagini, che il digitale sa da tempo deformare, stravolgere, imbrogliare. Léa Seydoux punteggia il suo personaggio con una sfaccettatura cangiante: attraversa la sua professione, la sua vita cercando di reclamare il vero, ma non è altro che uno specchio deformato (come la tv, come il cinema). Altro che Titane, è questo il film più spudoratamente tragico e grottesco sulla contemporaneità. Voto: 7,5.

NEL BUIO DELL'UMANITÀ - Bonifacio Angius è un regista singolare nel panorama italiano. Abituato a interagire in contrasti dialettici con la sua Sardegna, descrive la realtà che lo circonda e i personaggi che la animano con libertà ruvide e una irrequieta insensatezza. Giunto al suo quarto lungometraggio, il pessimismo sconfortato di Angius si fa ancora più cupo. Non a caso stavolta ci troviamo in una casa isolata, da qualche parte, dove cinque amici decidono di ritrovarsi e sfidare la vita in una sconsiderata assunzione di droga. Come una “grande abbuffata”. Quattro hanno una certa età e vivono di fallimenti, rimpianti, ripicche; il più giovane dovrebbe avere la vita davanti: di fatto non solo non riesce a ridare vigore, ma peggiora la situazione. Angius scrive, gira, recita, fotografa e monta “I giganti”, come un film cupissimo, totalmente disperato, claustrofobico, di un rigore impressionante, di una geometria esistenziale tratteggiata tra codardia e distruzione, immersa in un buio paradigmatico (si veda il contrasto quasi accecante con i rarissimi momenti esterni). La morte scava nei dettagli continui la sua presenza, ma Angius ne fa annusare l’aria, e usa il fuori campo o la distanza nel riprenderla, come se in tanto orrore fosse salvo almeno lo sguardo. Voto: 7,5.

LA CASA NEL BOSCO - Alla morte della nonna, la piccola Nelly si reca nella casa tra i boschi, dove sua madre ha vissuto l’infanzia. Qui incontra Marion, una bambina che presto si rivela essere la stessa madre, in un cortocircuito temporale (qui solo personale) che può ricordare in modo situazionale “Ritorno al futuro”. "Petite maman" è un piccolo, grande film per un passaggio traumatico dell’infanzia (la perdita di un parente caro), tutto al femminile, pieno di grazia, che conferma la profondità e la sensibilità di un’autrice da tempo affermata, qui capace di scandagliare il rapporto madre/figlia nel modo più intenso. Un piccolo film, isolato e con pochi personaggi, dove si dimostra che anche in tempo di pandemia, il cinema può trovare la strada per esprimersi in modo esauriente e felice. Voto: 7.

UNA DOZZINA DI MYERS - Il dodicesimo film della serie, stavolta “Halloween kills”, il secondo dalla ripartenza dall’originale di Carpenter a firma di David Gordon Green, riparte da dove ci aveva lasciati. Ad Haddonfield Michael Myers torna a farsi trucemente vivo, iniziando a compiere una strage tra i pompieri accorsi per debellare l’incendio della casa di Laurie. Ormai catalogabile come prodotto industriale, l’ultima puntata si fa notare per la considerazione che il Male si annidi tra la popolazione e che Myers ne rappresenti l’energia negativa. Stavolta (e non sarà l’ultima) si torna nella casa di origine. Jamie Lee Curtis appare poco, spesso distesa sul letto d’ospedale. Voto: 5,5.

 

Ultimo aggiornamento: 09:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA