Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Finale a sorpresa diverte, ma non graffia
Brotherhood: padre e figli, pascoli e fede

Mercoledì 20 Aprile 2022

Sei Mostre del cinema fa, la coppia di registi argentini Gastón Duprat e Mariano Cohn finirono in Concorso con “Il cittadino illustre”, che permise all’attore principale Oscar Martinez di vincere la Coppa Volpi, film salutato generalmente con soddisfazione e divertimento. In realtà, specie a chi scrive, sembrava piuttosto evidente come la regia fosse abbastanza modesta, le figure spesso macchiettistiche, lo slittamento nel dramma piuttosto debole, con cause scatenanti risibili, e il discorso sul ruolo dell’artista (il campo era quello letterario) meritava più incisività. Ma si rideva (e alcune situazioni lo permettevano) e al pubblico questo solitamente basta. Accadeva nel 2016. Adesso la storia sembra comodamente ripetersi. “Competence official”, passato anch’esso in Concorso a Venezia nel settembre scorso, porta puntuale la firma di Duprat & Cohn, dove ritroviamo di nuovo Oscar Martinez, stavolta affiancato dall’illustre coppia Penélope Cruz (che avrebbe meritato la Coppa Volpi più per questo film rispetto al premio ricevuto per “Madres paralelas”) e Antonio Banderas. E nel frattempo, per l’uscita in sala, in Italia ha trovato il titolo “Finale a sorpresa”, che come spesso accade non sembra la scelta migliore. Comunque anche qui i registi mantengono quel sarcasmo puntiglioso e sostanzialmente dal bersaglio facile. È la storia di un uomo d’affari di 80 anni, che alla sua avanzata età sta cocciutamente a chiedersi cosa poter fare per essere ricordato meglio dai posteri. Decide quindi di produrre un film (in realtà all’inizio aveva pensato a un ponte…), scelta bizzarra se si vuole, ma il problema più complicato è decidere chi sarà a dirigerlo. La scelta cade sulla eccentrica e piuttosto bislacca regista Lola Cuevas (una Penélope Cruz di folta, rossa capigliatura), e due attori, altrettanto fuori centro (Antonio Banderas e appunto Oscar Martinez), che inizieranno una specie di gara a chi è più bravo, con situazioni estreme, che attraverso un sguardo scopertamente grottesco mirano, come nel film precedente, a mettere alla berlina il mondo degli artisti. Le schermaglie tra i due contendenti si sovrappongono e talvolta l’effetto ottiene il risultato, come nella scena del macigno sulla testa. Ma il film è anche tutto qui, in questa collocazione della risata ricercata, colta più in siparietti che non nell’insieme del racconto piuttosto esile, e che strada facendo perde anche quel po’ di brillantezza, che all’inizio sembra avere. Tra sberleffi e inganni, il film si accontenta pertanto di sparare vecchi colpi un po’ stanchi contro i premi cinematografici (davvero fa ridere la distruzione delle statuette?), ovviamente i critici, al pari del realismo della recitazione eccetera. E il graffio perde le unghie migliori. Voto:5.

MEMORY BOX - La vigilia di Natale, a Montreal, Alex, che sta in casa con la nonna in attesa del ritorno della mamma, riceve un pacco proveniente dal Libano, che la donna anziana cerca di nascondere, per non turbare le festività. Ma un incidente inatteso, rende tutto inutile. Nel pacco c’è la memoria di tutta l’adolescenza della mamma e della sua amica Liza, da poco morta, in un Libano tormentato dalla guerra. La figlia, di nascosto, inizia così a curiosare e scopre molti lati nascosti e segreti della madre. Alla coppia di registi libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige l’ultimo festival di Torino ha dedicato una retrospettiva che ha permesso di conoscere il loro interessante percorso, dove con uno sguardo documentaristico solido e appassionato hanno attraversato la storia problematica e tragica del loro Paese (tutta la loro infanzia è stata vissuta durante la guerra civile), e forse l’opera più conosciuta ad oggi, prima di “Memory box”, era un film molto libero come “Je veux voir” con una Catherine Deneuve, arrivata a Beirut per ricevere un premio, che si avventura in una specie di road-movie tra le macerie del conflitto. Con “Memory box” i due registi firmano forse l’opera di finzione più ambiziosa e anche più insidiosa, perché Hadjithomas e Joreige non si accontentano di raccontare i rapporti madre-figlia, le storie private e la Storia di una terra tormentata da bombe e morte, ma le rileggono attraverso un film che s’interroga sul linguaggio (di ieri, di oggi), sulla costruzione dei ricordi, sulla comunicazione e sulla capacità di trasferire tutto questo in immagini che dialogano tra loro, tra presente e passato. Partendo da un’idea che sembra arrivare da “I ponti di Madison county” (lo svelamento di una “vita nascosta” di un genitore, attraverso oggetti e scritti ritrovati) e soprattutto da esperienze della stessa regista, la scatola dei ricordi ricostruisce l’identità di una persona cara, con un finale che sembra ridare alla vita uno slancio dopo troppi patimenti. Il presente è il riflesso del passato, come a dimostrare che le ferite del tempo, le macerie di un territorio devastato e il desiderio di ritrovare una normalità pacifica si saldano tra di loro, ridando fiato al ricordo di un’età in cui le speranze era ancora intatte, ben lontane dall’idea di una distruzione futura. Emergono così fantasmi e frammenti sconosciuti e la ricerca, via via sempre più spasmodica, di comprendere cosa sia successo, la verità sulla propria famiglia, si accentua in un’ostinata ricerca, che porta Alex a confrontarsi con situazioni inattese, finendo quasi con lo specchiarsi nella realtà degli anni precedenti. Nell’oscillazione rapsodica di mondi che tornano a collegarsi, sta la forza di un film che porta la curiosità a trovare una spinta spirituale. Voto: 7.

BROTHERHOOD - La fratellanza del titolo è quella di tre fratelli, pastori sui monti bosniaci, rimasti senza padre per quasi due anni, arrestato al ritorno dalla Siria, dov’era andato a combattere. Un racconto di formazione a più voci, scandito dal silenzio (non solo del padre lontano), ma anche da una società patriarcale che plagia l’individuo più debole attraverso un’applicazione rigorosa e punitiva della religione. Il trevigiano-praghese Montagner registra nel corso di diversi anni la trasformazione dei ragazzi, il loro rapporto e le loro speranze, mettendo a nudo contraddizioni e contrapposizioni. Un cinema del reale forte e disciplinato, forse talvolta un po’ accademico, ma investigativo su una realtà non distante da noi, quindi più inquietante. Prodotto dalla friulana Nefertiti. Voto: 7.

UNA MADRE, UNA FIGLIA - Nella periferia della capitale del Ciad, la giovane figlia di Amina resta incinta. Maria vorrebbe abortire, ma le leggi del suo Paese lo vietano. Il tema è importante, la vicenda decisamente politica, il pauperismo e la povertà danno quel tocco che piace ai caritatevoli occidentali, specie ai festival (“Lingui”, questo il titolo originale era Cannes 2021), ma qui il film è piuttosto insalvabile: modesta sceneggiatura, debole drammaturgia, evanescente insieme del racconto, che non trova nemmeno forza nei momenti più duri e violenti. Certo con “Una madre, una figlia” Mahamat-Saleh Haroun lascia la sensazione di sincerità, ma non sempre può bastare. Voto: 5.

SUNDOWN - Michel Franco da sempre ingaggia una sfida con lo spettatore attraverso opere scostanti, puntigliosamente aggressive, destabilizzanti a costo di produrre choc forzati e a volte pretestuosi, spesso di violenza esibita. Con “Sundown” siamo ad Acapulco, dove Alice e Neil Bennett, che sembrano marito e moglie, si godono una vacanza con due adolescenti. La notizia di una morte improvvisa porta tutti a partire, ma al check-in Neil si accorge di aver scordato il passaporto. E non parte. Ma è una scusa. Volendo sfregiare l’apparente solidità di una famiglia sfacciatamente ricca e borghese, Michel Franco si limita però solo ad assecondare il gusto della provocazione, tra scatti di violenza e imprevedibili svolte amorose. Attonita interpretazione di un sonnambulo Tim Roth. Voto: 3.

STORIA DI MIA MOGLIE - Un capitano di mare scommette di sposare la prima donna che entrerà nel caffè dove è seduto. La sorte gli propone Lizzy, ma la storia non sarà così semplice. Estenuante mélo che la regista ungherese Ildikó Enyedi fa durare per quasi tre ore, in un mortale affaticamento per lo spettatore. La storia si lascia seguire senza scosse, costringendo anche il mistero a destare sostanzialmente indifferenza, nonostante la presenza di Léa Seydoux. Voto: 4,5.

 

 

Ultimo aggiornamento: 23:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA