Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Asteroidi e Millennium bug: che delusione
per Wes Anderson e Roman Polanski

Venerdì 29 Settembre 2023

Su Roman Polanski esistono, a ogni uscita di un suo nuovo film, alcune certezze. La prima è che scoppieranno puntualmente le polemiche, a maggior ragione se l’ultimo lavoro viene invitato a un festival per le nostre vicende giudiziarie legate a reati di stupro; e più prestigioso è il festival e più la gazzarra s’infiamma, come capitò a Venezia nel 2019 con le parole incontrollate dell’allora presidente di giuria Lucrecia Martel, in pieno slancio del #metoo, contro “L’ufficiale e la spia” che si portò a casa comunque il Gran Premio. La seconda, strettamente cinematografica, è che si tratterà di un ottimo film. Purtroppo a volte ci sono delle inaspettate eccezioni. E per “The Palace”, presentato Fuori concorso proprio al Lido poche settimane fa, non riguardano la prima di queste sicurezze. Che cosa dunque si può mai dire di “The Palace”, passato, a stragrande maggioranza, tra lo sconforto generale all’ultima Mostra, per la grande delusione che ha accompagnato la proiezione? Che è un film senile? Che è un film debole? Che è proprio brutto? Che non sembra nemmeno di Polanski, se non per qualche improvviso lampo? Qui si aspetta per oltre un’ora un’epifania illuminante, che ci faccia ritrovare il sarcasmo di un regista che sembra prendere il cinema vanziniano e di Neri Parenti portandolo avanti stancamente, tra situazione e gag che strappano qualche timido sorriso, senza poi far convogliare tutta questa umanità devastata dentro uno sberleffo finale verso banchieri, ricchi e finti ricchi, altezzose signore. Invece: niente. Siamo in un hotel di lusso in Svizzera, pronti per festeggiare l’arrivo dell’anno 2000, con il Millennium bug che incombe (e che sarà bellamente dimenticato nella sceneggiatura, ahimè firmata anche da un altro grande: Jerzy Skolimowski). Arrivano gli invitati, dove sembrano mancare soltanto Boldi & De Sica (però c’è Barbareschi, anche produttore). La situazione degenera presto, ma siamo lontani anche da uno Östlund, che almeno se vomita, lo fa in modo plateale. Qui l’ironia mette troppo selz, il sarcasmo è quello di rappresentare un mondo già morto, con un morto vero (John Cleese) che si fa di tutto per farlo credere ancora vivo, la provocazione è quella di una Fanny Ardant milf che attende dopo la mezzanotte un idraulico bonazzo, mentre il lato politico del film si accende alla tv con l’arrivo sul trono moscovita di Putin, con gli ospiti russi che fanno a gara a chi rappresenta lo stereotipo più evidente. E se il cast non manca, il film sì. Forse a 90 anni è difficile tenere alta la linea della risata della parodia (il trash che irride il trash), anche per chi anni prima aveva diretto “Per favore non mordermi sul collo”. Forse è solo un film scappato di mano e riuscito male (e “The Palace” lo è), perché prima o poi può capitare a chiunque, anche ai grandi maestri. Poi ci sarà sempre qualcuno (stavolta raro) che dirà è un capolavoro e che chi ne parla male non ha capito nulla. Voto: 3.

In una zona del deserto del Nevada, nel 1955, dove poco tempo prima aveva impattato un asteroide gigante, formando un vistoso cratere, varia umanità si destreggia in una quotidianità turistica alienante. Nel mezzo di un ritrovo per giovani scienziati, un alieno si cala da un’astronave. Il governo degli Stati Uniti mette tutti in quarantena. Il talento non mancherebbe, ma è raro vederlo così sprecato da anni, in un cinema asfittico che riproduce e ricalca se stesso, in una forma ossessivamente ripetitiva, geometricamente implacabile, a cominciare dai tediosi carrelli laterali, dominata dai colori pastello, da comportamenti bislacchi, da un compiacimento registico che alla fine risulta un evidente limite espressivo. Il cinema marshmallow di Wes Anderson produce quell’effetto da gonfiore temporaneo, apparentemente piacevole, che si svuota velocemente lasciando solo aria, tipico di quella pasticceria zuccherosa e indigesta. In "Asteroid city" le storie si intrecciano, il paesaggio si compiace della sua tinteggiatura, l’apparato fantascientifico è il diversivo. Così tutto diventa meccanico e senza cuore, senza mai farsi davvero emozione. Cast spettacolare di innumerevoli star, ma è un cinema ormai senza alcuna sorpresa, che ogni volta lascia invano un’intatta speranza che il prossimo film sia finalmente diverso. Voto: 3.

Una storia di ragazzi che vogliono giocare oltrepassando l’ipotetica porta dell’aldilà. A dar loro una mano arriva proprio una mano, che sembra in grado di stabilire, afferrandola come in una stretta d’affetto o di saluto, un contatto con i morti, ai quali viene dato l’invito a entrare (ricordate il magnifico “Lasciami entrare”?). Le sedute sono ovviamente tutte riprese dai cellulari. Poi siccome siamo in un horror, qualcosa va storto e uno dei partecipanti viene posseduto e preso in ostaggio nell’altro mondo. “Talk to me”, l’esordio dei fratelli Philippou, maneggia la materia con un occhio a Jordan Peele: non sarà un film epocale come taluni dicono, ma non è nemmeno stancamente riciclato. A cominciare dal tema della dipendenza. E qua e là fa anche sul serio paura. Voto: 7.

 

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 14:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA