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Se il business uccide la passione sportiva. La rabbia brasiliana segnale allarmante

Martedì 29 Ottobre 2013
Stella assoluta dello squadrone verdeoro a Usa ’94 e oggi nemico giurato del Mondiale in Brasile. Romario interpreta un sentimento diffuso e fino a qualche anno fa impensabile: in terra brasiliana il pallone non basta più a riempire la vita. La Confederations Cup è stata un antipasto: clamorose rivolte di massa attorno agli stadi. Romario anche da politico gioca all’attacco: «Il Mondiale ci costa 10 miliardi di euro, destiniamoli a ospedali, scuole, bambini affamati». La realtà è semplice: i grandi eventi - Mondiali, Olimpiadi e non solo - hanno un retrogusto amaro, sono soprattutto business e in questo modo la passione viene uccisa. Non a caso si parla di Roma 1960 con nostalgia, come l’ultima Olimpiade a misura d’uomo. Da allora eventi sempre più faraonici, da affidare a chi garantisce una forte copertura economica. Fino al paradosso dei Mondiali 2022 in Qatar. Voluti per gratificare un Paese che ha interessi forti soprattutto in Europa e ora di impossibile attuazione. Si parla di "raffreddare" (?!) interi stadi, di giocare d’inverno, di giocare e basta con 50 gradi.   Non più sport ma un affare colossale, e anche una rovina per qualche Stato. Si dice che il dissesto economico della Grecia sia cominciato con i Giochi di Atene nel 2004. L’Italia ha rinunciato a Roma 2020, forte magari dell’esperienza del Mondiale ’90, che ci lasciato in eredità stadi desolanti e una coda di tangenti.   In Formula 1 non va meglio: si corre dove ci sono i soldi, spariscono piste storiche (Monza è perennemente in discussione), ne appaiono di nuove e improbabili. Siamo arrivati ai Gp in notturna (obbligo televisivo).   Cio e Fifa sono comitati d’affari. Nulla pare destinato a cambiare, anzi, il business deve crescere. Fin quando la rabbia brasiliana non diventerà rabbia Mondiale. Ultimo aggiornamento: 12:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA