VENEZIA - Quando un paziente è in pericolo di vita, anche se non è un ricoverato ma un utente esterno, l'ospedale ha l'obbligo di attivarsi. A sancire il...
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La vicenda era cominciata il 2 aprile 2014. Pietro Castellan, già sofferente per varie patologie, era stato sottoposto a controlli ematochimici al presidio ospedaliero San Bassiano. «Analisi riassumono gli ermellini che avevano mostrato un allarmante livello del valore di potassio, senza che il risultato dell'accertamento fosse comunicato al medico curante, e nonostante che i valori suddetti evidenziassero un imminente pericolo di vita del paziente, che sarebbe difatti spirato tra giorni dopo per arresto cardiaco dovuto ad iperpotassiemia». Un eccesso di potassio nell'organismo può infatti causare l'alterazione del ritmo cardiaco. Nel sangue di Castellan era stato riscontrato un tasso di 7,3 milliequivalenti per litro, a fronte di un dato normale di 3,5-5.
Dal decesso dell'uomo era scaturita una causa civile. La vedova Margherita Campagnolo e i figli Marco e Maurizio Castellan avevano trascinato la locale azienda sanitaria davanti al Tribunale di Bassano, chiedendo il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del proprio congiunto, «cagionata da una condotta colpevolmente omissiva dell'ente convenuto». Il giudice di primo grado aveva però respinto la domanda, «ritenendo insussistente un obbligo di comunicazione urgente degli esiti dell'accertamento in capo all'azienda sanitaria, obbligo non previsto da alcuna specifica disposizione normativa». Tradotto: nessuna legge imponeva all'ospedale di avvertire il medico curante del paziente circa i risultati delle analisi. I parenti avevano impugnato quella sentenza davanti alla Corte d'Appello, ma pure a Venezia la loro istanza era stata rigettata.
Il Gazzettino