L'artista delle seconde possibilità: le opere nascono dai "rifiuti"

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BASSANO - L'uomo delle seconde possibilità. È questa forse la definizione che si adatta ad Amos Torresin, classe 1978, originario di Cartigliano, operatore sociale ma, soprattutto, artista. Far rivivere gli oggetti ormai privi di funzionalità e obsoleti è l'obiettivo del suo lavoro, svolto con un amore e una passione palpabili. Raggiungere l'atelier di Amos (che tra l'altro ha esposto all'Hilton di Venezia, all'università La Sapienza di Roma, a palazzo Moroni a Padova), incastonato tra i gioielli delle colline marosticensi, non è un'impresa tra le più semplici, ma senz'altro ripagata dal panorama che è possibile ammirare dalla terrazza della sua abitazione. Pochi gradini e si aprono le porte di un laboratorio contenuto, ordinato ma pieno di vita tra opere in fase di realizzazione e altre concluse, molte delle quali son state esposte lo scorso anno in Chiesetta dell'Angelo a Bassano nella mostra "Second life".

Amos e gli oggetti con una nuova vita  
Amos, ti chiamano spesso l'artista del riciclo, ma a te questa definizione non piace molto. Di cosa ti occupi? «"Riciclo" è un concetto ormai abusato nella nostra società e nel quale non mi riconosco. A me piace pensare, invece, di dare una nuova vita agli oggetti, permettendo loro di risaltare invece che finire gettati via. Lavoro su due tipologie di materiali: una base di legno ritagliata a sagoma di animale - ricavata dai vecchi battenti dei balconi delle case di una volta - sulla quale appoggio un oggetto legato alla comunicazione - macchine da scrivere, cellulari, telefoni, lettori dvd o vhs - dopo averlo smontato completamente».

Spiegaci un po' l'iter di creazione di queste tue sculture anomale - la serie degli "Animal mechanisms" - e che si possono addirittura appendere al muro. «Quest'ultima è una delle caratteristiche peculiari e vincenti delle mie opere, in quanto vanno oltre la bidimensionalità di un quadro, ma non sono nemmeno ingombranti quanto una vera e propria scultura. Il mio lavoro inizia con la ricerca dell'oggetto, che deve essere necessariamente al termine della propria "vita", ossia impossibile da aggiustare e da riutilizzare secondo il proprio scopo. Una volta trovato, lo smonto, lo pulisco perfettamente e scelgo la sagoma di animale sulla quale posizionarlo. Non incollo nulla, fisso le varie parti unicamente con le viti, dopo aver deciso la disposizione e talvolta seguendo la struttura degli organi interni dell'animale che vado a realizzare. In genere di un oggetto riesco ad utilizzare il 50% dei componenti, a volte il 70%, altre volte lo uso addirittura tutto».

Anche la sagoma in legno, però, ha la sua storia. «Certo, infatti a me piace riutilizzare i battenti dei balconi delle vecchie case che, generalmente, presentano quella tonalità verdognola dovuta agli schizzi di verderame finiti addosso alla struttura sulla quale si arrampicavano le foglie delle viti. Non dipingo mai le sagome, mi piace lasciarle del loro colore "naturale" perché anche queste rivivano secondo la loro natura».

Qual è la parte più difficile del tuo lavoro e quanto impieghi a terminare una "scultura"? «Disporre i componenti dell'oggetto prescelto sulla sagoma di legno è un'operazione di estrema precisione, che richiede attenzione ai dettagli e, soprattutto, alla simmetria. Quest'ultima, in particolare, necessita di componenti doppi e identici per la parte destra e sinistra dell'opera (immaginiamo si tratti di una farfalla) spesso difficili da rinvenire. Il tempo di lavoro è molto variabile, ma tra la ricerca dell'oggetto e l'ultimo componente posizionato potrebbe intercorrere anche più di un mese».


La tua passione è innata ma senz'altro alimentata da una forte vena artistica già presente in famiglia. «Assolutamente. Da bambino ho trascorso molto tempo nell'atelier di mio padre pittore e ciò ha contribuito notevolmente a far maturare in me la passione per l'arte sviluppata poi nella particolare accezione che le ho dato. Per questo spesso anche mio figlio piccolo crea accanto a me, nel suo modesto tavolino di lavoro, realizzando oggetti con le proprie mani, poi talvolta valorizzati in qualche piccolo spazio ricavato all'interno delle mostre organizzate "per le opere del papà"». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino