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C’è già chi lo chiama il lockdown (pre) olimpico: ichika, bachika, versione locale di “o la va, o la spacca”. Pur di riuscire a organizzare i Giochi – compito che in realtà appare obiettivamente sempre più difficile, come nel suo seguitissimo programma radio ha ribadito giorni fa il giovane scrittore Satetsu Takeda, che invita il Cio a cancellarle al più presto, per evitare danni sempre più gravi all’immagine all’economia del Paese – il Giappone decide di prendere di petto una pandemia che, in base ai numeri ufficiali, ha già dimostrato di aver contenuto meglio di tanti altri Stati (compreso il nostro): “appena” 3600 morti in totale, meno di quanti ne registrano in un giorno gli Usa, e noi in una settimana.
Così, a meno di 200 giorni dall’annunciato inizio delle Olimpiadi, il governo ha deciso una nuova chiusura - tranne poche eccezioni - delle frontiere e un nuovo stato d’emergenza. Peccato che manchi ancora l’arma più efficace, quella del vaccino. E non è poco. Ritardi incomprensibili fanno sì che quelli ufficialmente approvati arriveranno solo a fine febbraio, anche se alcuni vip – tutto il mondo è paese – hanno già trovato il modo di procurarsi, e iniettarsi, quello cinese. Ma se una delle speranze – o addirittura condizioni – in vista dei Giochi era quella di accogliere atleti, addetti e spettatori vaccinati in un Paese di vaccinati siamo ben lontani dalla realtà.
Ma la domanda è: funzionerà questo nuovo lookdown “a la japonaise”? Tutti sperano di sì, molti temono di no. In effetti - e a parte la sosta forzata all’aeroporto di Narita per le varie procedure sanitarie, che da un Paese come il Giappone ci si aspetterebbe durassero un po’ meno e soprattutto fossero più efficaci - quei pochi stranieri che arrivano in questi giorni a Tokyo, magari da un Paese che ha vissuto o sta vivendo un lockdown vero e proprio, restano un po’ perplessi. Basta girare a piedi, in macchina o sui mezzi pubblici della capitale – una delle quattro zone del Paese colpite dallo stato di emergenza - per porsi i primi dubbi. Ma che razza di lockdown è, con treni cittadini, metropolitana e autobus strapieni come al solito, scuole, negozi e centri commerciali regolarmente aperti, così come uffici pubblici e privati? Possibile che i giapponesi siano diventati improvvisamente tutti disobbedienti, che si facciano beffe delle autorità e che il governo non sia capace di far rispettare le regole? Non è questa l’immagine che abbiamo del Giappone. E in effetti non è questo che sta succedendo. Sembra così. Ma non lo è.
Intanto, le misure adottate del governo non sono obbligatorie: sono semplici richieste, “suggerimenti”.
Non sono contenute in un Dcpm, strumento legislativo che in Giappone non esiste, ma enunciate prima verbalmente, dal premier in persona, nel corso di una conferenza stampa blindata, poi pubblicate non sulla Gazzetta Ufficiale, ma sui siti dei vari ministeri e dai giornali.
«Io lo scorso aprile ho chiuso: l’indennizzo era troppo basso, non mi conveniva tenere aperto - mi spiega Hideo, titolare di una izakaya (trattoria) che frequento da molti anni – ma stavolta mi sembra che il governo abbia fatto le cose perbene. Tra gli incassi che posso continuare a fare di giorno e il rimborso per la chiusura anticipata la sera ci rientro, e dò una mano al Paese in un momento di estrema difficoltà».
Funzionerà? Tutti sperano di sì. Molti temono di no. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino