Seravella, capitale delle balie

Seravella, capitale delle balie
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LA STORIA
Avete presente tutte quelle stupidaggini che si legano alla parola museo dandone un significato negativo? «Pezzo da museo», «dietro liceo davanti museo», «polveroso come un museo» e quant'altro? Ecco, scordatevele. Perché il Museo etnografico di Seravella di Cesiomaggiore, in provincia di Belluno, è qui per dimostrarvi quanto siano spesso stupidi i luoghi comuni. C'è la parte espositiva, ovviamente e poi ne parliamo. Ma cominciamo da quel che di vivo, palpitante, si registra dentro e fuori questo edificio, già villa appartenuta alla famiglia Avogadro degli Azzoni. Il frutteto: sono state reimpiantate piante di mele e pere autoctone, alcune dalle caratteristiche fuori dal comune, per esempio il Pon de fer e il Pon de la roseta si conservavano tanto a lungo che a fine XIX secolo venivano imbarcate a Venezia e mandate via nave in Egitto. Il roseto: 400 varietà di rose antiche, tutte recuperate per talea da orti e giardini della val Belluna; alcune non sono più conosciute, tanto che si rende necessario identificarle. Una di queste rose antiche è stata recuperata in un orto di Lasta di Livinallongo, a 1700 metri di altitudine, una rarissima varietà di alta montagna; altre rose raccontano storie, come quella ritrovata da due anziani nel greto del Piave all'indomani del disastro del Vajont, o quella che una balìa aveva portato dal giardino della casa dov'era stata a servizio, a Novara. L'apiario: tenuto dall'apicoltore Remo Corona. Già questo appare interessante, ma frutteto, roseto e apiario, non sono solo luoghi di visita, sono posti dove si fa didattica con i ragazzini delle scuole che seminano varietà locali (l'ultima lo zafferano di montagna), raccolgono e poi festeggiano mangiando i frutti del loro lavoro; ci svolgono attività disabili, disagiati mentali (memorabile la collaborazione con l'ospedale psichiatrico sul tema degli spaventapasseri), anziani.

ROSE & POMI
Quando vengono i gruppi delle case di riposo, poi, sono loro a fornire informazioni ai collaboratori del museo perché si risvegliano ricordi sopiti di anni lontani, quando quei lavori che oggi fanno quasi per divertimento un tempo erano la dura necessità quotidiana. Ci vengono a fare tirocini di inclusione sociale i ragazzi che sono nello sconto di pena. Tutto questo non sarebbe neanche concepibile senza gli esterni che a diverso titolo collaborano con il museo: l'Associazione Isoipse, che si occupa della didattica con i bambini; il Gruppo folklorico di Cesiomaggiore, di fatto co-fondatore del museo, che fornisce volontari per sorveglianza e accoglienza, persone competenti che raccontano ai visitatori le storie degli oggetti esposti; la Unifarco, azienda farmaceutica e cosmetica con sede nella non lontana Santa Giustina, sempre in val Belluna; e poi la Cariverona, che supplisce come può alla cronica mancanza di finanziamenti.
LA BÀLIA DI VISCONTI
Un museo antropologico è di per sé una rarità in Italia, questo di Seravella ha cominciato a operare nel 1997 e la parte espositiva è stata aperta nel 2005, ma rimane in perenne movimento e ampliamento: tre sale sono dedicate a una raccolta di oggetti messi assieme da Giuseppe Mazzotti, alpinista, critico d'arte, scrittore, lungo tutto l'arco alpino, e l'ultima sezione, inaugurata nel dicembre 2017, è quella dei gioielli popolari collezionati negli anni Cinquanta/Sessanta da Rosetta Pozzoli Prosdocimi. La nobildonna ha, tra gli altri oggetti, raccolto parecchi tremoli, una specie di spilloni che facevano parte dell'abbigliamento femminile, anche delle bàlie da latte. Proprio quella delle bàlie è la sezione più gettonata del museo: un mondo scomparso che un tempo aveva uno dei suoi epicentri in questa zona del bellunese. Sono esposti alcuni particolarissimi abiti da bàlia, ormai introvabili, e una stanza è dedicata a Maria Canova, la donna di Mugnai di Feltre che fu per due anni bàlia di Luchino Visconti. Questi fu sempre legatissimo a quella che chiamava «la mia seconda mamma» e continuò a scriverle anche quando divenne un regista famoso. Non è tutto qui perché schiacciando un pulsante si possono udire i racconti del mondo di ieri dalla viva voce delle bàlie. Negli anni Ottanta sono state intervistate ben 83 bàlie ormai anziane signore che hanno rievocato i tempi in cui andavano nelle città a servizio delle famiglie più ricche (osteggiate dai parroci che temevano la perdizione per quella brave ragazze di campagna). Ce ne sono ancora in vita soltanto un paio.
PREZIOSI FILMATI
In effetti questa delle voci e dei filmati è una cifra del museo di Seravella: i contadini che richiamano le mucche, i cacciatori che imitano la selvaggina, le donne attirano le galline. Ogni villaggio aveva un suo richiamo particolare: poteva essere chi-chi-chi oppure puli-puli-puli, e così via. Una sala è dedicata all'emigrazione in Brasile e un'altra ai pendii, perché lavorare in montagna è diverso che farlo in pianura e tutti gli attrezzi dovevano essere adattati alle pendenze. La struttura della vecchia cucina della villa era rimasta intatta, con tanto di larin (focolare) e acquaio ed è stata riallestita con arredi originari. Fin qui le cose belle.
MUSEO ABBANDONATO
Daniela Perco, antropologa, è stata la fondatrice del museo, è in pensione da tre anni e non è mai stata sostituita. E qui arrivano le dolenti note. I dipendenti erano cinque, ora ne sono rimasti due, la conservatrice provvisoria è Cristina Busatta e da tempo si attende un concorso. Il museo è gestito da un consorzio di cui è capofila la Provincia, ma da quando le Province sono state declassate, il personale è passato in carico alla Regione, dando così origine a un incubo burocratico. Perco, da volontaria, viene ancora al museo, i due dipendenti fanno i salti mortali, ma non è cosa. Ci si domanda come mai un museo che mantiene vivo il patrimonio identitario della val Belluna e non solo sia così negletto. Se è trascurato da chi dovrebbe dotarlo di mezzi, non lo è dai visitatori: nel 2018 sono stati staccati 4150 biglietti, ma poiché l'accesso al giardino è gratuito, si calcola che i visitatori siano stato oltre 7 mila; 2 mila i ragazzi delle scuole. Ai visitatori del bellunese se ne cominciano ad aggiungere dalle confinanti province di Trento e di Treviso, arriva qualche gruppo dall'estero, soprattutto emigrati veneti in Brasile.

Dopo la dichiarazione delle Dolomiti patrimonio Unesco dell'umanità, i visitatori della val Belluna sono aumentati del 30 per cento, e anche il museo ne ha risentito positivamente. «Noi vogliamo essere un museo accogliente», dice Daniela Perco, e ricorda il grande successo le iniziative gastronomiche: seminari seguiti da cene a tema, per esempio con le rose del roseto (risotto di rose seguito da pesce con crema di rose) o con i formaggi delle malghe della zona, o ancora a base di mais (nella val Belluna si coltiva il mais sponcio) con i fagioli autoctoni (i zalet, ma non solo). Ancora convinti che i musei siano polverose teche di inutili oggetti del passato? La prossima volta che andate in montagna fate una deviazione per Cesiomaggiore.
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino