Respingimenti in mare e barche affondate così l'Australia chiude le rotte dei migranti

Respingimenti in mare e barche affondate così l'Australia chiude le rotte dei migranti
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GLI ESEMPI
ROMA Sono due i modelli «esteri» di cui si parla in queste ore, a proposito di soluzioni drastiche in tema di migrazioni europee. Da un lato quello australiano ancora in vigore, che relega i richiedenti asilo in isole lontane dalla costa del paese a sud del Pacifico e l'altro collegato alla grande ondata di profughi provenienti dal Vietnam alla fine degli anni 70, dopo la guerra.

Al di là delle valutazioni sul piano umanitario, entrambi i modelli proposti non sono, però, semplici da traslare in Italia. Il primo caso è quello australiano, una campagna di tolleranza zero lanciata nel 2013 e che è ancora in piedi nei suoi punti fondamentali, nonostante le pesanti critiche ricevute anche dalle Nazioni unite. L'idea di base è che chi arriva in Australia via mare, anche quando viene riconosciuto destinatario di protezione internazionale, non può comunque ottenere il diritto a risiedere sull'isola. Nella pratica, oltre a lanciare una campagna mediatica trasmessa anche in Asia dal titolo «No way», «scordatevelo», la marina australiana, quando intercetta un barcone di migranti, lo aggancia ad un cavo e lo trascina verso Papua Nuova Guinea o l'Indonesia, per poi affondarlo. In alcuni casi, specie nei primi anni, l'azione è avvenuta senza il consenso dei due stati, ma generalmente i migranti vengono portati su tre isole in Nuova Guinea, dove vengono detenuti a tempo indeterminato. Chi ottiene il permesso di soggiorno per motivi umanitari esce dai centri di detenzione ma resta sull'isola o va sulla più grande delle tre, Nauru. La strategia, che effettivamente ha bloccato buona parte degli arrivi, ha alcune differenze sostanziali col caso italiano. Prima di tutto è stata applicata a numeri tutto sommato ridotti: poche migliaia di persone all'anno (in Italia il picco degli arrivi è stato 170mila). Ha costi elevati, che arrivano a 2 miliardi di euro per le strutture sulle isole, più 200 milioni per i controlli via mare. Ma il punto fondamentale è che si basa su accordi con paesi terzi che accettano di accogliere tutti i migranti respinti, sia nei centri di detenzione, sia quelli riconosciuti come profughi.
IN ASIA
L'ipotesi avanzata da Francia e Spagna ricorda, invece, molto da vicino quella esposta dall'inviato speciale per il Mediterraneo Centrale dell'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, Vincent Cochetel, in un'intervista all'Agence France Presse. Cochetel parlava di un meccanismo regionale, simile a quello che venne creato negli anni Settanta nell'Asia Sudorientale all'epoca della crisi dei Boat-people, i vietnamiti che lasciarono il loro Paese dopo la fine della guerra, nel 1978 e nel 1979. Gli Stati della regione autorizzavano lo sbarco dei profughi, senza che ciò li vincolasse alle conseguenze ulteriori degli sbarchi: si limitavano ad autorizzare l'utilizzazione dei loro territori a fini di transito. 

I rifugiati venivano poi reinsediati in altri Paesi: Usa, Australia, Canada, Francia e Gran Bretagna, per lo più. In queste piattaforme, che dovrebbero aver sede in Italia, secondo quanto ha spiegato Cochetel, si dovrebbe fare una prima selezione dei migranti, con l'aiuto dell'Unhcr e dell'Oim, in modo che chi non ha diritto alla protezione internazionale possa essere rimpatriato, mentre gli altri dovrebbero essere trasferiti in altri centri, da dove verrebbero reinsediati nell'Ue. L'Italia è contraria soprattutto per una ragione: i migranti economici che non ottengono la protezione, spesso non hanno documenti e le procedure di rimpatrio, oltre che costose, finiscono per essere impossibili.
Sa. Men.
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Il Gazzettino