Marco Conti Sulle piazze, davanti a microfoni e taccuini, se ne dicono di tutti i colori, salvo poi aggiungere - mostrando di...
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Sulle piazze, davanti a microfoni e taccuini, se ne dicono di tutti i colori, salvo poi aggiungere - mostrando di crederci sempre meno - che il «governo non rischia». Dopo la notturna a palazzo Chigi, dove si è sfiorata la crisi di governo, Di Maio e Salvini ieri hanno ripreso la sceneggiata. Un copione ormai rodato, fatto di richiesta di dimissioni di Siri da sottosegretario e di accuse alla Raggi e alla sua fallimentare amministrazione della Capitale.
Tutto pubblico, tutto forzato e spinto al limite, anche se il passo decisivo, e che in altre condizioni sarebbe ritenuto normale - ovvero l'apertura della crisi - non si azzarda a compierlo Salvini e tantomeno ci pensa Di Maio. Ma pubblici sono anche i ministeri, intesi come pm, e i conti, intesi come conti pubblici. Due fattori che in parte hanno già mutato la narrazione e spinto il teatrino da campagna elettorale verso vette che sarà difficile ridiscendere dopo il 26 maggio.
L'inchiesta sul sottosegretario Siri è diventata l'arma che Di Maio sta usando per cercare di risalire la china dei consensi. Fallita l'estemporanea strategia mediatica affidata per qualche settimana ad Alessandro Di Battista, i grillini pensano di aver trovato con l'inchiesta su Siri, e il tema della legalità, l'argomento per ridurre la distanza dall'alleato che registrano tutti i sondaggi. Quanto possa pagare il saldo tra la rissa e il volere a tutti i costi Siri «in panchina», è infatti tutto da vedere. (...)
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Il Gazzettino