«La felicità è una porta che si apre dall'interno: per aprirla, bisogna

«La felicità è una porta che si apre dall'interno: per aprirla, bisogna
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«La felicità è una porta che si apre dall'interno: per aprirla, bisogna umilmente fare un passo indietro». Questo sosteneva Søren Kierkegaard, teologo e filosofo esistenzialista danese. In tempi di vite variamente recluse, la metafora della porta che si apre dall'interno ci stimola a riflettere. Innanzitutto sul piccolo mondo in cui abitiamo quando la porta è chiusa. Come è stato questo spazio di casa, dove abbiamo condiviso convivenze forzate, di vita, di studio, di lavoro, con tutta la famiglia? Quali sono stati gli aspetti positivi, belli, luminosi, addirittura sorprendenti? Quali ci hanno creato difficoltà pesanti, crisi o fratture? Che cosa ha aiutato a mediare e lenire le tensioni? Che cosa le ha esasperate? Per i più riflessivi, e coraggiosi, potrebbe essere utile una sintesi scritta, da confrontare poi con le sintesi degli altri componenti della famiglia. Utile anche per far emergere percezioni e posizioni molto diverse e, a volte, addirittura opposte. Sorprendenti, su quanto il giudizio su una convivenza possa essere vertiginosamente soggettivo. Come nel caso di una coppia sui sessant'anni, di cui avevo in cura l'unica figlia. Alla domanda: «Come valutate il vostro matrimonio?», risposero all'unisono «Ottimo!» (lui) e «Pessimo!» (lei). Sorpresa, chiesi rapida: «Scusate, con chi siete sposati?», prima che una contagiosa risata partita dal marito, uomo dal tratto franco e gioviale, sciogliesse rapida la tensione. Tra gli aspetti positivi, la riscoperta del profumo di casa, del piacere di cucinare insieme piatti della tradizione familiare. Il riassaporare più tempo con i figli, specie se piccoli. Il piacere di riconquistare i lunghi tempi dei trasporti di lavoro alla vita personale e familiare. Più lunga è la lista degli effetti sinistri della convivenza forzata 24 ore su 24, tanto più pesanti quanto più è stata vissuta in case piccole, poco luminose, senza balconi o piccoli giardini. Interessante è invece lo spunto sul passo indietro per aprire la porta. Un passo che indica un moto opposto al desiderio di uscire. E un tempo, obiettivo e interiore, essenziale per una riflessione puntuale, concisa, concentrata, focalizzata, per uscire poi in modo calmo, meditato ed efficace verso la felicità. Il passo indietro suggerisce una distanza e un tempo in più, prima di (ri)uscire verso il mondo. Una distanza di sicurezza buona per chiedersi: «L'ho tanto desiderato. Ma adesso me la sento di uscire? Sono pronto per uscire?». Già dopo la fine del primo lockdown abbiamo visto molti adolescenti che non uscivano, nonostante la porta fosse poi aperta: «Sto meglio in casa», «Non mi fido», «Non so cosa fare». La casa nel frattempo era diventata per molti una tana in cui autoibernarsi, con l'unico contatto dei dialoghi via social. Così come abbiamo visto in molte persone ansiose, per le quali il periodo di reclusione in casa è stato un detonatore spaventoso di preoccupazioni e inquietudini difficili da controllare e sciogliere. Ancor più per l'impossibilità dell'attività fisica, anche il semplice camminare, il più potente ansiolitico e antidepressivo che esista. Così come per gli anziani, spaventati dai media e dalle proprie, immense, solitudini. Un passo indietro, prima di uscire, prezioso per rilanciare e compattare il desiderio di vita, intensa e vera, che la porta finalmente riaperta suggerisce. Un passo indietro per uscire senza frenesie, senza impulsività temerarie, senza astratti furori. Per uscire invece con animo meravigliato, pronto a farsi (ri)sorprendere dai molti piccoli incanti della vita, se li sappiamo ascoltare osservare, accogliere, con animo attento e grato. Ricercheremo le stesse cose, con gli stessi comportamenti di prima? O quella porta (ri)aperta, da cui uscire con passo meditato, ci stimola a ripensare a prospettive diverse di felicità?

www.alessandragraziottin.it
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Il Gazzettino