L'INTERVISTA L'ufo, cioè il film più originale e forse spiazzante della

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L'INTERVISTAL'ufo, cioè il film più originale e forse spiazzante della 78esima Mostra di Venezia (1-11 settembre), s'intitola Il buco. È uno dei 5 italiani in concorso e l'ha...

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L'INTERVISTA
L'ufo, cioè il film più originale e forse spiazzante della 78esima Mostra di Venezia (1-11 settembre), s'intitola Il buco. È uno dei 5 italiani in concorso e l'ha diretto Michelangelo Frammartino, uno degli esponenti più audaci del cinema d'autore europeo: 53 anni, origini calabresi e formazione milanese, un passato di architetto e autore di videoinstallazioni, il regista ritrova il pubblico a 11 anni da Le quattro volte, il suo poetico secondo film che, protagonisti un pastore e le sue capre sui monti della Calabria, entusiasmò a Cannes e fu venduto in mezzo mondo. Con Il Buco, ambientato sempre nella sua regione d'origine, Frammartino racconta ora l'eroica impresa di alcuni giovani speleologi che nel 1961, in pieno boom economico, s'immersero in una delle grotte più profonde del mondo (700 metri), l'Abisso del Bifurto sull'altopiano del Pollino.

Rapporto con la natura, sogno collettivo, coraggio, scoperta dell'ignoto: girato nella notte eterna del sottosuolo senza dialoghi né musica, prodotto da Doppio Nodo Double Bind con RaiCinema e presto in sala con Lucky Red, il film regala emozioni forti anche grazie all'audio surround Dolby Atmos.
In cosa consiste?
«È un sonoro tridimensionale che garantisce un'esperienza immersiva. Di solito usato per i film d'azione, ora farà parlare le viscere della terra compresi i miraggi sonori che si producono a centinaia di metri sotto il suolo. Credi di sentire suoni e voci, è capitato anche a me durante le riprese».
Cos'altro ha provato?
«Momenti di smarrimento temporale. La grotta è una zona d'ombra non solo del paesaggio, anche dell'anima».
Ma com'è nato il film?
«Conobbi la storia dell'Abisso mentre giravo Le quattro volte. Andai alla grotta, un buco incastrato nella natura incontaminata, e lanciai un sasso ma tale era la profondità che non mi arrivò il rumore del suo arrivo sul fondo. Quel silenzio mi lasciò qualcosa dentro».
E poi?
«Nel 2016 partecipai a un campo di speleologi con Giulio Gecchele, uno dei ragazzi del 1961. Mi fece venire la voglia di girare il film, tra l'altro era saltato un altro mio progetto. Ma prima di iniziare le riprese e poter scendere a 700 metri con gli speleologi-interpreti Paolo Cossi, Jacopo Elia, Denise Trombin, Nicola Lanza (ogni volta 7 ore all'andata, 10 per tornare in superficie), ho dovuto imparare a calarmi anch'io nel buio delle grotte».
È stato difficile?
«Superata la paura, ho scoperto che la speleologia è un'esperienza di sconvolgente bellezza perché ti porta a varcare l'ultima frontiera esistente sul Pianeta: il confine tra noto e ignoto. Con Google Earth possiamo vedere tutto tranne il cuore della terra».
Perché la attraeva tanto raccontare l'impresa del 1961?
«I protagonisti vanno controcorrente: mentre tutti, nei promettenti anni Sessanta, salgono al Nord a costruire grattacieli, loro scendono al Sud più povero per immergersi nel sottosuolo. È un'esperienza pura che però non raccontano: non ne esistono foto o testimonianze. Compiono un'impresa collettiva mentre le attuali attrezzature ti permettono di scendere in autonomia. Quegli speleologi, la meglio gioventù dell'epoca, ci hanno insegnato che non ci si salva da soli. È lo slogan della pandemia».
Il film contiene altri riferimenti all'attualità?
«Quando l'uomo penetra nel paesaggio per colonizzarlo è più pericoloso del virus. Non a caso il Covid è considerato la risposta della natura alla nostra invadenza».
Contento di inseguire il Leone d'oro a Venezia?

«Certo, ma non me lo aspettavo: pensavo che il linguaggio del mio cinema non fosse adatto al concorso. Il direttore della Mostra Alberto Barbera è stato quasi più coraggioso di me».
Gloria Satta
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino