C'era una volta Tarantino

C'era una volta Tarantino
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IL FESTIVAL
Nel delirio quotidiano che governa le giornate di Canneas piomba in Concorso Quentin Tarantino con il suo, a dir poco attesissimo film Once upon a time in Hollywood, che del delirio fa ovviamente un'iperbole (specie nel finale, com'era abbastanza pensabile), a cominciare da embarghi, stucchevoli lettere, irricevibili richieste, anche a voce da un incaricato del festival prima della proiezione per la stampa, di non rivelare i contenuti del film, che ovviamente si possono evitare fino a un certo punto e non certo perché l'autore lo vuole imporre. Ma Tarantino è Tarantino: può cambiare i regolamenti dei festival, come accadde a Venezia nel 2010; può cambiare i percorsi della Storia (come è accaduto in Bastardi senza gloria); può pensare di essere il più grande regista del mondo e di aver reinventato il cinema. Per fortuna la sua arroganza si fonde con una sperticata dose di goliardia, dove il giocherellone supera spesso l'antipatico. Ma ormai anche in questo Tarantino si ripete, si direbbe che sta invecchiando, come d'altronde è evidente guardando questo suo ultimo lavoro, dove mette in campo tutto l'armamentario cinefilo degli altri e ormai anche di se stesso, un gioco a ripetersi che denota una creatività in calo.

LA STORIA
Siamo nel 1969 e facciamo la conoscenza con Rick Dalton (Leo DiCaprio), una star delle serie televisive dell'epoca, e della sua controfigura nelle azioni pericolose Cliff Booth (Brad Pitt), anche suo amico. Non vivono un periodo particolarmente fortunato, tanto che ottengono, attraverso Marvin Schwarz (Al Pacino), la possibilità di girare alcuni film in Italia. I due abitano in una villetta di Los Angeles, vicini di casa di Sharon Tate (Margot Robbie), moglie di Roman Polanski, che nell'agosto di quell'anno, fu trucidata assieme ad altri amici in una notte sanguinaria per mano della banda di Charles Manson.
Tarantino piazza tutto il suo credo artistico: ricostruzione d'epoca impeccabile, gusto vintage, immersione in un mondo spavaldamente grottesco, almeno una grande sequenza (Brad Pitt nel ranch degli hippies), ma anche un narrazione costipata e a tratti noiosa, dove cogliere l'essenza del set diventa un evidente gioco a specchio della vita reale, facendo fatica a riconoscere il vero dalla finzione. L'idea non nuova, nemmeno in Tarantino, si sposa con il marchio di fabbrica dell'irriverente sarcasmo e allora tanto meglio avevano fatto, negli ultimi tempi, i fratelli Coen con Ave, Cesare!.
Dichiarando i consueti amori, anche per registi italiani come Sergio Corbucci e Antonio Margheriti, Tarantino conferma tutta la sua anima pulp, ma l'accumulo di riferimenti e l'ansia di volersi sempre dimostrare arguto e acuto, ingolfa tutto lo spazio, soffocando anche l'idea che il cinema possa davvero essere un'arma per epifanie diverse e acclarate dalla Storia e dalla cronaca, un senso di amore smisurato ma sfiancante, che rischia di essere incontrollato. Così nell'ambiguo finale cala il sipario in una rappresentazione bulimica, dove forse la dissezione del Mito hollywoodiano si perde nell'ennesimo sberleffo di un incorreggibile fanciullone, il cui colpo ora rischia di essere a salve.

Adriano De Grandis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino