Basterebbe la scena di incontro casuale tra Undine e Christoph, con quell'acquario che esplode in un caffè di Berlino, in una catastrofe accidentale nata da una distrazione, per...
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Se il cinema tedesco sta ritrovando, come in effetti sembra, quell'ondata vigorosa come fu negli straordinari anni '70, Petzold è senz'altro uno dei protagonisti del rilancio. Undine è un film che spezza ogni linearità, è geometricamente sghembo, seduce attraverso il suo essere misterioso, inafferrabile. A maggior ragione, quando da metà in poi, lascia ogni ormeggio realistico e si immerge in uno scenario immaginifico, così caro al regista di Il segreto del suo volto e del precedente Transit (in Italia La donna dello scrittore), dove i corpi diventano fantasmi fluttuanti, catturati dallo sguardo e subito dopo negati, come se la storia si destrutturasse continuamente, in un melò sensitivo e disperato.
Passato in Concorso all'ultima Berlinale, dove Petzold è praticamente di casa, è un film che osa sfondare i confini di una narrazione rassicurante, magari anche con qualche eccesso di simbolismo (il palombaro in miniatura, i modellini che spiegano la storia urbanistica di Berlino unita, divisa, infine ancora unita - come illustra ai turisti Undine, che lavora da freelance al Märkiches Museum), ma che si permette un finale che sgomenta per il suo interrogarsi tra mito e realtà, in un triangolo di sentimenti che risalgono a galla, per morire e rinascere continuamente, dividersi e ritrovarsi. Paula Beer, giustamente premiata a Berlino (ma l'avrebbe meritato anche il film), è una Undine dai gesti sfuggenti e dallo sguardo magnetico; Franz Rogowski, che si avvia a diventare l'alter ego del regista, è un Christoph scosso e inquieto, come tutto il film.
Adriano De Grandis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il Gazzettino