Basterebbe la scena di incontro casuale tra Undine e Christoph, con quell'acquario

Venerdì 25 Settembre 2020
Basterebbe la scena di incontro casuale tra Undine e Christoph, con quell'acquario che esplode in un caffè di Berlino, in una catastrofe accidentale nata da una distrazione, per fare di Undine un grande film. E di Christian Petzold un notevole regista: ma questo lo sapevamo già. In quella distruzione spettacolare si tesse l'attrazione fatale di due sconosciuti, che si ritrovano praticamente abbracciati, e si identifica l'elemento fondamentale del film: l'acqua. D'altronde Christoph è un palombaro industriale e Undine è, come dice il nome stesso, la rappresentazione del mito dell'Ondina, ninfa che fa parte del folklore europeo, leggendaria creatura d'acqua, che per conquistarsi l'anima deve innamorarsi di un mortale e che si vendica se questi non riesce ad amarla. Undine, pochi minuti prima del folgorante incontro con Christoph, sta seduta in quel bar con Johannes. È la scena iniziale del film e lui le spiega che la sta per lasciare. La risposta di Undine è spietata: se mi lasci, sai che ti ucciderò. Ma subito dopo finisce inzuppata a terra con il palombaro e scoppia l'amore.
Se il cinema tedesco sta ritrovando, come in effetti sembra, quell'ondata vigorosa come fu negli straordinari anni '70, Petzold è senz'altro uno dei protagonisti del rilancio. Undine è un film che spezza ogni linearità, è geometricamente sghembo, seduce attraverso il suo essere misterioso, inafferrabile. A maggior ragione, quando da metà in poi, lascia ogni ormeggio realistico e si immerge in uno scenario immaginifico, così caro al regista di Il segreto del suo volto e del precedente Transit (in Italia La donna dello scrittore), dove i corpi diventano fantasmi fluttuanti, catturati dallo sguardo e subito dopo negati, come se la storia si destrutturasse continuamente, in un melò sensitivo e disperato.
Passato in Concorso all'ultima Berlinale, dove Petzold è praticamente di casa, è un film che osa sfondare i confini di una narrazione rassicurante, magari anche con qualche eccesso di simbolismo (il palombaro in miniatura, i modellini che spiegano la storia urbanistica di Berlino unita, divisa, infine ancora unita - come illustra ai turisti Undine, che lavora da freelance al Märkiches Museum), ma che si permette un finale che sgomenta per il suo interrogarsi tra mito e realtà, in un triangolo di sentimenti che risalgono a galla, per morire e rinascere continuamente, dividersi e ritrovarsi. Paula Beer, giustamente premiata a Berlino (ma l'avrebbe meritato anche il film), è una Undine dai gesti sfuggenti e dallo sguardo magnetico; Franz Rogowski, che si avvia a diventare l'alter ego del regista, è un Christoph scosso e inquieto, come tutto il film.
Adriano De Grandis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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