VENEZIA - Una goliardata nel locale spogliatoio di una prestigiosa boutique di Venezia, filmata e condivisa in un gruppo whatsapp, le era costata il licenziamento con la minaccia...
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IL FILMATOLa commessa, una venticinquenne con numerosi riconoscimenti per la diligenza e i risultati, lavorava nel negozio Gucci in calle larga XXII Marzo, dove si trovano le firme più prestigiose della moda. Il 16 febbraio 2018 (lavorava lì dal 2012) ricevette da Luxury Good Italia Spa una contestazione scritta che la sospendeva dal servizio. Seguita, il 2 marzo, dal licenziamento per giusta causa per aver irreversibilmente minato il vincolo fiduciario. Cosa aveva fatto? L'azienda era venuta a conoscenza (attraverso una persona che facendo la spiata pensava evidentemente in qualche avanzamento di carriera) che la ragazza aveva postato il 23 luglio 2017 un video nella chat privata in cui si ritraeva lo store manager mentre usciva dal bagno in mutande con una bottiglia di urina in mano.
LA DIFESAPer lo stesso motivo anche il direttore era stato licenziato e, pure lui aveva impugnato il provvedimento, salvo poi trovare un accordo transattivo con l'azienda.
«È stata una goliardata - spiega Jacopo Molina, l'avvocato della commessa - che si era consumata in un momento di pausa. Non si vedeva dove si trovavano e la chat era ristretta ad un gruppo di colleghi. E, per la cronaca, la bottiglia conteneva del tè». Per Molina, un provvedimento sproporzionato rispetto ai fatti contestati, ma soprattutto provocato dall'utilizzo secondo lui illegittimo di una chat privata. E qui sta l'aspetto più interessante, visto che whatsapp e i social sono di frequente utilizzati dalle aziende contro i propri dipendenti.
INVIOLABILITÀIl grimaldello che ha portato all'accoglimento del ricorso da parte del giudice Chiara Coppetta Calzavara è il principio costituzionale dell'inviolabilità della corrispondenza privata, che in virtù di pronunciamenti della Cassazione, è estensibile anche alle chat private: In tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria.
Per il giudice tali comunicazioni non potevano né dovevano essere divulgate dai membri del gruppo whatsapp con la conseguenza che il fatto contestato non sussiste. E l'azienda (assistita dagli avvocati Stefano Chiti, Vittorio e Federica Bechi) è stata condannata al reintegro, al risarcimento e al pagamento delle spese contributive e legali.
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Il Gazzettino